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27 dicembre 2024

«39 scalini» di Patrick Barlow

Roma, Spazio Diamante
26 dicembre 2024

IL REGISTA SI PERDE NELLA NEBBIA DELLA CONFUSIONE

Il romanzo di John Bucham, pubblicato nel 1915 a puntate su un rotocalco dell’epoca, è un thriller che per la sua perizia di scrittura ha affascinato il maestro del giallo, Alfred Hitchcock, tanto da indurlo nel 1935 a farne un film. Sia l’uno che l’altro sono opere costruite sul filo della perfezione, dense di particolari significativi e non, ma mai nulla slitta fuori stile: né le virgole (nel romanzo), né le pause o toni della recitazione (nel film). Al primo lungometraggio, divenuto un cult, seguirono altri remake, ma quel che a noi interessa è la trascrizione per il palcoscenico che ne fece Patrick Barlow e che debuttò a Leeds nel 2005 con l’ineccepibile regia di Maria Aitken. La caratteristica della versione teatrale dei 39 scalini (The thirty-nine steps) è che, alla tipica trepidazione del thriller, questa preferisce il godimento della comicità sollecitato da attori impegnati in un gioco quasi surreale che soltanto il teatro sa offrire. Tuttavia, come per il giallo gli indizi devono essere seminati con estrema precisione, nel comico gli effetti si devono susseguire con impeccabile rigore (nei toni, nei movimenti, nei gesti e nell’ordine in scena) altrimenti lo spettatore viene distratto e la vis si disperde nel buio della platea.

Nella trascrizione di Barlow il rigore deve essere ancor più meticoloso e – oserei dire – «spartano» perché costruita sull’abilità dei quattro interpreti, i quali, a parte il protagonista (unico a ricoprire un solo ruolo), gli altri tre (e sono tre da copione, non per scelta registica) si alternano ciascuno in una decina, forse più, di personaggi, uomini e donne, con velocissimi travestimenti; e contemporaneamente garantiscono l’evolversi della storia da un luogo all’altro spostando di continuo alcuni ingombri che – in teatro, grazie all’aiuto della fantasia – possono diventare automobili, scompartimenti di treno, case di campagna, stanze d’albergo: tutto proposto senza alcuna interruzione per trascinare il pubblico in un viaggio artatamente caotico, ma prudentemente esigente. È ovvio che in un simile marchingegno, complesso come un rompicapo, la precisione e la chiarezza visiva devono essere i cardini sui quali l’interpretazione deve scivolare senza che mai nulla scricchioli. È ovvio che il regista debba costruire ogni passaggio in maniera netta, affinché l’occhio dello spettatore si concentri soltanto lì, nel punto dove deve cadere in quel momento. È ovvio che qualunque intrusione fuori programma possa diventare una vistosa «sporcatura», un bullone fuori posto che fa vacillare una fragilissima opera architettonica che si regge sulla trasparenza di un cristallo.

Se Richard Hanney, l’uomo accusato dell’omicidio di Annabella Schmidt, perde il cappello in un luogo, lasciandolo lì in proscenio per un tempo indeterminato, non può riappropriarsene poi quando si trova a centinaia di chilometri di distanza: così il gioco diventa dilettantesco. Il cristallo lascia vedere ogni cosa! Una trovata comica (e ce ne sono a bizzeffe) non può essere disturbata dagli altri attori che si cambiano il costume sul fondo, nella penombra, dove sono predisposti i bauli con gli abiti, altrimenti la comicità (che è delicata come una bolla di sapone) svanisce con un soffio. Se la prima versione inglese, americana e italiana, è stata realizzata con tre uomini e una donna, un motivo ci sarà: la donna è fondamentale per rendere credibile la finzione scenica. Anche un divertissement deve essere credibile, altrimenti si assiste a un gioco dilettantesco. Se il cartello della stazione di Edimburgo inavvertitamente casca in terra per il troppo muoversi in scena, non deve rimanere in bella vista anche quando la vicenda si trasferisce a Londra. Devo ripetermi? Se il copione originale dice che la recitazione di tutti è «sopra le righe», non vuol dire che si debba urlare e sovrapporsi nelle battute così da far perdere la coloritura di ciascun personaggio. Troppo tardi è arrivato il rimprovero del finto poliziotto al collega, «Esci da questo corpo!»: sarebbe dovuto intervenire molto prima per riportare disciplina sul palco e comprensione in platea. Tuttavia non so se in quest’allestimento alquanto superficiale e poco professionale, sia più necessario l’intervento di un’attrice donna, di un direttore di scena che coordini l’andamento e prepari con anticipo i cambi, o di un regista, il quale, dopo la scena del treno, s’è perso nelle nebbie della confusione. (fn)
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39 scalini, di Patrick Barlow, dal romanzo di John Bucham. Traduzione, Antonia Brancati. Con Marco Zordan (Richard Hannay) e con Alessandro Di Somma, Yaser Mohamed, Diego Migeni. Scenografia, Paolo Carbone. Luci Massimo Gresia. Regia Leonardo Buttaroni. Allo Spazio Diamante, fino al 12 gennaio

Foto: Marco Zordan, Diego Migeni e Alessandro Di Somma (© Manuela Giusto)