IL REGISTA SI PERDE NELLA NEBBIA DELLA CONFUSIONE
Il romanzo di John Bucham, pubblicato nel 1915 a puntate su un rotocalco dell’epoca, è un thriller che per la sua perizia di scrittura ha affascinato il maestro del giallo, Alfred Hitchcock, tanto da indurlo nel 1935 a farne un film. Sia l’uno che l’altro sono opere costruite sul filo della perfezione, dense di particolari significativi e non, ma mai nulla slitta fuori stile: né le virgole (nel romanzo), né le pause o toni della recitazione (nel film). Al primo lungometraggio, divenuto un cult, seguirono altri remake, ma quel che a noi interessa è la trascrizione per il palcoscenico che ne fece Patrick Barlow e che debuttò a Leeds nel 2005 con l’ineccepibile regia di Maria Aitken. La caratteristica della versione teatrale dei 39 scalini (The thirty-nine steps) è che, alla tipica trepidazione del thriller, questa preferisce il godimento della comicità sollecitato da attori impegnati in un gioco quasi surreale che soltanto il teatro sa offrire. Tuttavia, come per il giallo gli indizi devono essere seminati con estrema precisione, nel comico gli effetti si devono susseguire con impeccabile rigore (nei toni, nei movimenti, nei gesti e nell’ordine in scena) altrimenti lo spettatore viene distratto e la vis si disperde nel buio della platea.
Nella trascrizione di Barlow il rigore deve essere ancor più meticoloso e – oserei dire – «spartano» perché costruita sull’abilità dei quattro interpreti, i quali, a parte il protagonista (unico a ricoprire un solo ruolo), gli altri tre (e sono tre da copione, non per scelta registica) si alternano ciascuno in una decina, forse più, di personaggi, uomini e donne, con velocissimi travestimenti; e contemporaneamente garantiscono l’evolversi della storia da un luogo all’altro spostando di continuo alcuni ingombri che – in teatro, grazie all’aiuto della fantasia – possono diventare automobili, scompartimenti di treno, case di campagna, stanze d’albergo: tutto proposto senza alcuna interruzione per trascinare il pubblico in un viaggio artatamente caotico, ma prudentemente esigente. È ovvio che in un simile marchingegno, complesso come un rompicapo, la precisione e la chiarezza visiva devono essere i cardini sui quali l’interpretazione deve scivolare senza che mai nulla scricchioli. È ovvio che il regista debba costruire ogni passaggio in maniera netta, affinché l’occhio dello spettatore si concentri soltanto lì, nel punto dove deve cadere in quel momento. È ovvio che qualunque intrusione fuori programma possa diventare una vistosa «sporcatura», un bullone fuori posto che fa vacillare una fragilissima opera architettonica che si regge sulla trasparenza di un cristallo.
Foto: Marco Zordan, Diego Migeni e Alessandro Di Somma (© Manuela Giusto)