QUANDO L’AMORE NON RIESCE A INTACCARE IL MURO DELL’ODIO
Che cos’è l’amore? Che cos’è l’odio? Ingmar Bergman cerca di dare una risposta scrivendo i dieci dialoghi che compongono la sua ultima sceneggiatura (del 2003), Sarabanda, riprendendo, trent’anni dopo, il filo del discorso interrotto troppo bruscamente tra Marianne e Johan, protagonisti di «Scene da un matrimonio», film per la televisione del 1973 (in Italia trasmesso nel 1978). Il titolo dell’opera si riferisce al quarto movimento della 5ª «Suite per violoncello solo» di Bach. Il termine risale al XVI secolo quando in Spagna s’indicava una particolare danza di origine, pare, orientale che si ballava su un ritmo dapprima allegro e poi sempre più grave. Per estensione il vocabolo oggi indica un susseguirsi disordinato di accadimenti, di particolari scombinati, ma anche una cascata di cose che si accompagnano a un movimento assai chiassoso. Insomma, una gran confusione. Non è un caso che tra le ultime battute di Marianne a Johan, in «Scene da un matrimonio», c’è una domanda che dice: «Credi che viviamo in una totale confusione?». Una frase che diventa per Bergman il seme che dà alla luce Sarabanda, dove sono i sentimenti a creare quel movimento chiassoso che vibra disordinato nell’animo di certe persone legate a rapporti indissolubili.
Sono passati oltre trent’anni. I due protagonisti sono invecchiati. Si sono separati e si ritrovano insieme per un capriccio del destino. Marianne ha il desiderio di riabbracciare il suo primo marito e corre da Johan: la sarabanda sentimentale ricomincia, anche se i nuovi effettivi protagonisti sono più giovani: Henrik (figlio di Johan) e sua figlia Karin. Anna, la madre, è morta. Nonostante il testo sia stato scritto per il set cinematografico, mantiene una struttura teatrale molto solida, sostenuta dal principio fondamentale che in scena ci sono sempre due persone che dialogano. Particolare intorno al quale si alternano l’odio e l’amore come motore infernale di una famiglia, e dove la leggerezza del rapporto (l’allegria della danza) si trasforma in una ossessione sempre più grave. Henrik, rimasto vedovo troppo presto, mostra infatti una morbosità esasperata nei confronti di Karin. Entrambi amano la musica e suonano il violoncello, ma il padre non ammette che la figlia possa avere altro maestro all’infuori di lui. È padre padrone, ma è anche colui pronto a confessare che, abbandonato da Karin, sa di essere una nullità. Nell’idea dell’abbandono ritorna ad essere il bambino alla ricerca di una dipendenza responsabile. Quella che Henrik non riesce a trovare nel vecchio genitore, Johan, e che probabilmente gli è sempre stata negata.
La confusione chiassosa determinata dai sentimenti esasperati cattura tutti e quattro i protagonisti, man mano che la vicenda procede: anche Marianne, apparentemente estranea, viene travolta dalla marea delle insicurezze e delle fragilità che divorano i componenti della famiglia. Sembrano tutti cristalli frangibili, resi vulnerabili dalla difficoltà di mantenere saldi i rapporti, alimentando il proprio grado di comprensione verso l’altro. Parlano incessantemente, sapendo bene che il tentativo di sviscerare le angosce patite e le debolezze commesse non porterà a nessun riparo. La catastrofe emotiva è imminente: l’amore, che pure c’è, non riesce a intaccare il muro dell’odio e l’odio non si convince a fare un passo indietro. Tutto resta immutabile, malgrado i dialoghi continuino a frantumare i silenzi che però avanzano. Vien da chiedersi, allora, se quelle famiglie che rinunciano al dialogo, preferendo il silenzio, sono davvero, poi, così incoscienti e sconsiderate; e se il silenzio adottato, invece, non sia una più saggia opzione disintossicante: tanto il peggio – fa capire Bergman – è inevitabile.
I riferimenti di scrittura al cinema e gli argomenti musicali presi a pretesto dall’autore svedese, diventano lo spartito per la regia di Roberto Andò. Il quale pensa a un allestimento osservato attraverso la quarta parete che si trasforma in un grande obiettivo di una macchina da presa. L’idea è realizzata scenicamente da Gianni Carluccio che con un sapiente gioco di luci crea atmosfere pittoriche da interni cinematografici. Non mancano suggestivi campi lunghi, totali, campi medi. Scene con doppie inquadrature: dentro e fuori la stanza, grazie a una quinta nera scorrevole che separa gli ambienti; oppure il primo piano d’apertura, che ricorda un po’ lo stile delle presentatrici della televisione in bianco e nero, e che serve a introdurre il dramma: il prologo, appunto. Molto interessante è l’audacia con cui il regista ha pianificato la recitazione degli interpreti: quattro voci che diventano quattro strumenti, accordati sulle tonalità della sarabanda per violoncello che fu ideata con la tecnica della scordatura: una leziosità che consiste nel tarare l’accordatura in maniera anomala per ottenere effetti inusuali.
E tali sono risultate le variazioni dei suoni recitativi. Eccellente Elia Schilton, padre rimasto bambino, che misura gli equilibri tra suadenti e pacati consigli a improvvisi isterismi quasi schizofrenici. Ottima Alvia Reale capace di gestire continui sentimenti contrastanti (soprattutto quelli degli altri), mediatrice per puro caso, tirata nel vortice di una sarabanda, sembra non voler mai esalare l’ultimo sospiro d’amore: ne ha sempre uno di riserva. Molto brava anche la giovane Caterina Tieghi, giustamente rientrata, con l’interpretazione di Karin, nella terna delle attrici emergenti che concorre alla premiazione delle Maschere del teatro italiano che si terrà, al teatro Argentina, venerdì 12 settembre. Fuori «scordatura», ossia accordato normalmente, è parsa la prova di Renato Carpentieri, indubbiamente bravo, tuttavia legato a una recitazione meno desueta, tipica del suo repertorio, ma leggermente stonata, quindi meno coinvolgente, rispetto al fascino degli altri strumentisti. I quali, toccando accordi più tecnici, semplificano la comprensione dei passaggi dalla dolcezza alle crudeltà. Il vecchio nonno, invece, sente la fatica degli anni e l’accavallamento dei suoi stessi sentimenti, delle sue parole e dei suoi silenzi.
L’impatto visivo è elegante e soprattutto ordinato, in totale antitesi con il disordine sentimentale dei personaggi, che così sembra venir fuori dalle inquadrature assai prepotente. Andò, infatti, preferisce concentrarsi sulla recitazione, imponendo agli attori una staticità di movimento che giova al contrasto, ma rischia di far apparire certi gesti esasperati, quando Karin, per esempio, arrabbiata, si sfila la maglietta in presenza del padre: un’anticipazione enfatizzata della scena successiva che invece è costruita con conturbante delicatezza. Oppure rischia di prorompere in un vano azzardo, quando al finale Marianne e Johan si sentono costretti dal copione a guardarsi nudi e invecchiati. Un buio improvviso, nel momento in cui casca l’ultimo velo, avrebbe tolto ogni tentativo di finzione plateale. Anche sull’ultima immagine, quando i quattro protagonisti tornano in ribalta privi di abiti, mostrando l’anima nuda dei personaggi, ormai privi di torbide ambiguità, l’effetto è più didascalico che geniale.
Foto: Renato Carpentieri e Alvia Reale (© Lia Pasqualino)