L’INTERPRETE SCHIACCIATO DALLA MOLE DEL GENERALE
Troppo impegnato a raccontarci la vicenda spicciola di Macbeth, Daniele Pecci perde il controllo sui sentimenti dei personaggi che danno vita a quella che è la tragedia moralmente più intensa della produzione di Shakespeare. Costruita su uno schema storico piuttosto semplice, tanto da non riuscire a scardinare le regole del teatro medievale, la difficoltà del testo è quella di saper equilibrare le doppie intenzioni dell’autore, il quale da una parte si pone l’obiettivo di condannare la cupidigia di potere degli uomini e dall’altra di alternare a fatti puramente crudeli, con raffinata abilità poetica, il mondo del sovrannaturale: il bosco, le streghe, lo spettro. Il regista, che pure si pone queste domande e cerca soluzioni sceniche, però, al dunque, si accontenta di affrontare le complessità semplificando fino a rendere ovvia la visione trascendentale.
Il sipario si apre sulle streghe che scorgono nel bosco il corpo del generale scozzese (interpretato da Pecci) privo di sensi. Un braccio, con dito arcigno, s’allunga molto più delle umane possibilità quasi fino a sfiorarlo: è un curioso effetto che dà qualche speranza, ma poi resta senza seguito. Le streghe sono immaginate sempre in silhouette e una di loro, vittima di disabilità, è bloccata su una sedia a rotelle (intuizione originale) cigolante, perché il cigolio delle ruote diventa il canto meccanico delle arpie, come poi quello della civetta sarà il naturale preludio della morte. Ma anche questa trovata diventerà soltanto una ripetizione senza altre sorprese. Nella prima scena tra Macbeth e la sua Lady si preannuncia una interessante lettura dal risvolto «incestuoso»: lui s’accuccia tra le sue braccia e lei gli offre il seno come si fa con un neonato, ma poi l’intrigante sospetto svanisce nel nulla e torna la severità medievale.
Il medioevo trionfa su tutto: sulla scenografia che con un bel quadro d’apertura tinto di rosso sangue esaurisce le sue sfumature preferendo poi l’austerità delle mura possenti del castello; sui costumi all’apparenza d’epoca dai colori smorti e ripetitivi e con le corazze spudoratamente finte; sulla recitazione sempre monocorde, priva di sfumature (con l’eccezione di Sandra Toffolatti, che ha preso una strada solitaria dove le sonorità della tragedia finalmente hanno trovato frequenze più eterogenee); e infine sui duelli, che nel medioevo erano certamente il piatto forte, mentre sul palcoscenico del Teatro Greco sono apparsi trasbordanti di finzione e di delicatezze.
Con microfoni non invadenti
