LA DANZA DELL’IRONIA INTORNO ALLE DOGLIE DI CARLO III
Nella prefazione al Pentamerone (ed. 1925), Benedetto Croce scrive: «L’Italia possiede nel Cunto de li cunti del Basile il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari. … Eppure l’Italia è come se non possedesse quel libro, perché scritto in un antico e non facile dialetto.» Ed è vero, la raccolta secentesca delle fiabe di Giambattista Basile, fino all’inizio del XX secolo, è stata presa in considerazione soltanto all’estero, dove i lettori potevano godere delle traduzioni eseguite nella loro lingua: i fratelli Grimm ne beneficiarono non poco. Soltanto da qualche decennio circolano anche da noi traduzioni in un napoletano più comprensibile e facile da leggere. Cosicché, dopo la memorabile rappresentazione de La gatta Cenerentola di De Simone (1976), le storie del Pentamerone, che nelle intenzioni dell’autore voleva emulare, in nuce, l’esperienza letteraria del Boccaccio, hanno cominciato a circolare più agevolmente, tanto da indurre registi di cinema e di teatro ad abbeverarsi a questa copiosa fonte.
Emma Dante ne ha appena concluso una trilogia, inaugurando la stagione del Teatro Argentina, con Re Chicchinella, spettacolo più che convincente, che ha coinvolto un nutrito gruppo di artisti dediti perlopiù a esprimersi, in coro, tramite un preciso linguaggio del corpo, sostituendo il movimento surreale all’ironia della parola. D’altronde una gallina smuove il riso senza intavolar discorsi: ruba l’attenzione di chi l’osserva a causa delle sue movenze ridicole, degli scatti repentini e assai curiosi che ne fanno uno degli animali più buffi del creato. La Dante incentra la cifra della sua regia proprio attorno alla goffa comicità del pennuto, moltiplicandolo per l’intera corte del Palazzo. Un pennuto che però nella favola del Basile non è una gallina ma un’oca che nella traduzione più moderna diventa ‘A papera (trattenimento I della V giornata).
Questo, tuttavia, non è l’unico cambiamento intrapreso per arricchire la versione teatrale. C’è un lavoro drammaturgico molto più profondo che va apprezzato e lodato. Emma Dante s’ispira alla novella del Basile, ma in realtà ne costruisce una storia tutta sua. Protagoniste della fiaba originale, infatti, sono due sorelle, Lilla e Lolla, che vivono in estrema povertà. Un giorno accolgono in casa un’oca che accudiscono con talmente tanto affetto che il pennuto comincia a «sfornare» uova d’oro. Insospettite dall’improvviso cambio di abitudini delle sorelle, le vicine, dopo aver spiato la ragione, chiedono in prestito l’oca sperando di ricavarne lo stesso ricco beneficio, ma la bestia a loro riserva soltanto ignobili defecazioni. Le donne arrabbiate, quindi, le tirano il collo e la gettano in un vicoletto, insieme alle altre immondizie. Di lì a poco, passa il principe diretto alla zona di caccia, ma avendo urgente bisogno di liberare l’intestino, scende da cavallo e s’infila nel vicolo. Per pulirsi, poi, non avendo rimedio più consono, approfitta delle penne dell’oca morta che, però, morta non è. Per sortilegio, quindi, questa si attacca alle nobili chiappe, come una zecca, senza possibilità di mollare la presa. Dopo vani tentativi, in cui sono interpellati scienziati e professori, il principe decide di emanare un bando: a chi lo libererà dall’impiccio, se maschio, regalerà metà del suo regno, se femmina, la sposerà. Naturalmente sarà Lolla, riconosciuta dall’oca, che riuscirà nell’impresa e diventerà principessa, chiedendo un ricco marito anche per sua sorella Lilla.
Di tutto questo canovaccio barocco, nell’edizione teatrale, c’è rimasto ben poco: soltanto il racconto del principe, che nel frattempo è diventato re, il quale per soddisfare la sua urgenza si apparta nel vicolo e usa una gallina al posto dell’oca. Per il resto l’autrice, ché di autrice si tratta, scrive una storia a sé, pensando a una regia, e avendo già ben chiara una soluzione scenica, dove la cornice festaiola diventa anche protagonista. Quindi spazzate via le due sorelle povere, eliminate le donne invidiose, non resta che un re e una gallina dalle uova d’oro, come ci insegna Esopo. Re Chicchinella (anche il nome è un’invenzione del momento ricavata dall’assonanza del vezzeggiativo partenopeo che sta a indicare ai bambini la gallina: chicchirenella) diventa il perno centrale della narrazione e della messa in scena. Attorno a lui, infatti, ruota il coro dei servitori e delle damigelle che sempre, con atteggiamenti coreutici ed eccentrici costumi appropriati, con gran culoni in stile pollastrelle, adornano di comicità i dolori intestinali di Carlo III d’Angiò, a cui – a onor del vero – è toccato un più affannoso impaccio, perché – secondo la Dante – la gallina ha trovato maggior comodità dell’oca introducendosi completamente nell’orifizio regale, vivendo così all’interno delle viscere del re. Ma pagando l’affitto a suon di uova d’oro.
È con questo particolare che Emma Dante emette la sua sentenza critica alla società: raduna, in una danza satirica, la folla dei cortigiani interessati attorno al sovrano che soffre le pene dell’inferno. Tutti mangiano e festeggiano a scrocco in barba alle doglie di Sua Majestà, e in attesa che «sforni» l’uovo quotidiano che tranquillizzi le loro smanie di agio e di comodità. Anche la regina e la principessa restano abbagliate dall’incantesimo, e, pur avendo un ruolo di maggior responsabilità affettiva nei confronti del re, condividono il piacere della tavola e del divertimento insieme al coro dei crapuloni che si pasce in finte arie aristocratiche. La scena del pasto collettivo è di grande effetto, per leggerezza, ironia e significato: le damigelle parlano francese (accussì!) sputacchiando, a destra e a manca, sciccherie da galline; Chicchinella (un ottimo Carmine Maringola), viceversa, contesta lingua e abitudini transalpine, preferendo il napoletano: un napoletano comprensibilissimo rispetto a quello del Basile, ma pure con qualche parola che ricorda l’idioma caro ai poeti del nostro Regno del periodo secentesco.
Foto: Carmine Maringola è Re Chicchinella (© Masiar Pasquali)
