PRIMA GIAMBATTISTA BASILE E POI ROBERTO DE SIMONE
«Quando si dice Lo cunto de li cunti si vuol dire il primo e il più grande di tutti i racconti (così come si dice “il Cantico dei Cantici” e “il Re dei Re”)», lo scriveva Raffaele La Capria nel 1995 sul Corriere della Sera in occasione della pubblicazione delle favole del Basile tradotte da Ruggero Guarini per Adelphi. La raccolta del Pentamerone ha una struttura simile a quella ideata dal Boccaccio, ma si conclude in cinque giornate e non in dieci. Fu data alle stampe la prima volta nel 1637, e tradotta, già all’epoca, in più lingue in Europa; per lo stile e l’inventiva c’è chi incautamente paragonò l’opera al capolavoro di Rabelais; certamente in seguito offrì molti spunti alle novelle di Perrault e dei fratelli Grimm. Fu considerato dalla critica postuma uno dei più grandi monumenti letterari della cultura popolare. Leggiamone un piccolo brano, estratto proprio dalla favola La vecchia scortecata che Emma Dante ha tradotto e adattato per la scena con il titolo La scortecata.
«S’erano raccorete drinto a no giardino, dove avea l’affacciata lo re de Roccaforte, doi vecchiarelle, ch’erano lo reassunto de le desgrazie, lo protacuollo de li scurce, lo libro maggiore de la bruttezza. Le quale avevano le zervole scigliate e ngrifate, la fronte ncrespata e vrognolosa, le ciglia storcigliate e restolose, le parpetole chiantute ed a pennericolo, l’uocchie guize e scarcagnate, la faccie gialloteca ed arrappata, la vocca squacquarata e storcellata, e, nsomma, la varva d’annecchia, lo pietto peluso, le spalle co la contrapanzetta, le braccia arronchiate, le gamme sciancate e scioffate, e li piede a crocco.»
Soltanto leggendo l’originale si può comprendere, non il significato di tutte le parole (che anche per un napoletano sono assai ostiche), ma il senso della libertà di un linguaggio nascente, dove si può dire ogni cosa, brutta o bella che sia, perché detta alla maniera della plebe, la cui ignoranza rendeva il terreno d’ascolto completamente sgombro da preconcetti stilistici letterari e da qualunque forma di decoro narrativo, se non il rispetto della musicalità del dialetto e la scioltezza del racconto; valori che per noi oggi sembrano ostici e incomprensibili. Emma Dante, pur avendo tradotto la favola, semplificando il vocabolario originale, pur avendo riscritto lo cunto in dialogo, è riuscita a mantenere intatto lo spirito libero del linguaggio nascente, dove tutto si può dire e qualunque cosa si può ascoltare.
Nel testo originale c’è un re, in carne ed ossa, che corteggia una delle creature che abita dabbasso, soltanto perché ha sentito dire dalla voce di una delle due che, a causa di un gelsomino caduto dal piano di sopra, il suo cranio si è ammaccato: colpito da tanta immacolata delicatezza, il sovrano perde la testa e si prostra davanti alla presunta bellezza di una donna che non ha mai visto. Emma Dante, che per facilitare la comprensione in scena ha battezzato le sorelle con i nomi di Rusinella e Carulina (per Basile restano anonime), ha voltato la favola in un gioco disperato sul deperimento del corpo. L’ideale della bellezza femminile, che nella favola trapela dal desiderio del re, è stato cancellato dallo svilimento della vecchiaia, dalla solitudine che accompagna l’età avanzata, dall’esasperazione del ridicolo.
Per ottenere l’effetto ha scelto due interpreti maschili, molto bravi e convincenti, Salvatore D’Onofrio (Rusinella) e Carmine Maringola (Carulina), caricandoli del peso di un’età che non hanno e del senso di quel linguaggio originale che si potrebbe rintracciare nelle movenze tipiche delle vecchine delle favole e negli atteggiamenti esasperati delle barcollanti popolane di un tempo, nella postura artificiosa di chi con il corpo riesce a descrivere l’ambiente in cui si trova: trasferendo il barocchismo linguistico in un «barocchismo fisico». Rimanendo ancorata ai canoni del Teatro elisabettiano, quando le parti femminili erano interpretate da uomini, la Dante, seguendo le istruzioni del Basile, rilancia la feroce critica a quelle donne contemporanee, le quali, pur di non invecchiare, si tirano, si scorticano, si gonfiano deturpando il loro inevitabile decadimento fisico e morale. Scrive, infatti, l’autore del Pentamerone: «Il maledetto vizio, conficcato in noi femmine, di sembrare belle ci riduce a tali termini che, per indorare la cornice della fronte, guastiamo il quadro della faccia…»
In scena, due seggioline e un baule sul fondo. Una porta surreale che appare soltanto per giocare a essere la preferita del re, a nascondersi dalla vista di chi non c’è, ma che magari ci fosse. Un gioco perfido, che oltre a spezzare la favola del Basile, interrompendola prima del matrimonio con il sovrano, rivela la tragedia di un’esistenza (anzi due) priva di vitalità, senza interessi e senza speranza: condizione che spinge Carulina a farsi scorticare (spellare) affinché una nuova pelle, più giovane e fresca, le restituisca il fiore degli anni. Una triste chimera voler competere con le fanciulle. E ancor più triste per Carulina è competere con l'età e con la fanciulla che fu.
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La scortecata, testo e regia di Emma Dante (da lo trattenemiento decemo de la jornata primma de lo Pentamerone del Cavalier Giambattista Basile, 1637). Con Salvatore D’Onofrio (Rusinella) e Carmine Maringola (Carulina). Elementi scenici e costumi di Emma Dante. Luci Cristian Zucaro. Lo spettacolo si replica al Teatro Vascello, fino al 1° dicembre alternandosi con «Il canto della sirena», della stessa autrice
Foto: Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola (© ???)