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Gianfranco Dettori e Andrea Jonasson |
CON UN GRANDE CAST LA COMMOZIONE NON ARRIVA PER CASO
Da quanto tempo l’emozione non mi scuoteva!
Per una volta mi piace cominciare a scrivere d’istinto. Puro istinto. Perché, è vero, assistendo a Donna Rosita nubile il sentimento che mi lega al teatro – a una certa idea del teatro in cui sono cresciuto, quella che affonda le radici nell’educazione teatrale – ha subito il trauma del risveglio. Lo stesso che, paradossalmente, prova chi all’improvviso esce dal coma e d’incanto recepisce di nuovo le vibrazioni dell’esistenza. Che qui, tradotto in termini emotivi, si chiama nostalgia. È la nostalgia di vedere rappresentato il rigore, cioè l’etichetta scomparsa delle grandi rappresentazioni, l’omaggio a un Credo certamente acatollico ma ugualmente sacro. Una devozione rivolta non esclusivamente al cosa sì è visto (che pure ha la sua valenza), ma piuttosto al come è stato riproposto. Il teatro, si sa, è un gioco infinito durante il quale la Signora Finzione cerca di imitare la Signora Realtà; unica regola: guai a prenderne il posto, pena la catastrofe. Ma a catastrofi, ben peggiori, abbiamo assistito in questi anni: quando abbiamo visto la prima delle due madame andarsene da sola per la sua strada, senza alcuna meta, cioè senza alcun rigore, osservando esclusivamente la regola del pressappochismo, delle mezzecalzette: l’esempio di teatro che alla lunga accompagna lo spettatore affezionato verso un coma critico sempre più profondo, verso l’incapacità di giudizio critico: un letale anestetizzante.