21 giugno 2025

Ancora sul Teatro della Pergola

Alessandro Giuli, ministro della Cultura

Roma, 21 giugno 2025

UNA POSTILLA NECESSARIA

All’indomani del polverone sollevato a Firenze, dopo lo choc per l’annunciato declassamento del Teatro della Pergola, la cui eco ieri è giunta fino in piazza della Signoria con poche spiegazioni da parte del Ministro della cultura e troppe proteste fumose dei soliti piagnoni, la timida voce del sottosegretario dello stesso dicastero, Gianfranco Mazzi, che ha la delega per lo Spettacolo dal vivo, annuncia: «Dopo aver appreso delle plateali dimissioni di tre componenti della commissione teatro del Ministero e che due di loro, nominati come figure tecniche dalla Conferenza unificata di Regioni, Province e Comuni, sono in realtà esponenti di partito, ho deciso di accelerare una decisione già da tempo condivisa con le associazioni più rappresentative del settore. Insedieremo entro pochi giorni un gruppo di lavoro per lo studio e l’individuazione di nuovi criteri e nuove modalità per l’assegnazione dei contributi allo spettacolo dal vivo che lavorerà per i prossimi due anni e dovrà realizzare un sistema più semplice e trasparente di quello attuale, da lasciare come eredità alla prossima legislatura. Sarà Giorgio Assumma a guidare il gruppo di studio che si avvarrà del contributo dei più autorevoli studiosi italiani della materia e dei migliori operatori del mondo dello spettacolo.»

Declassato il Teatro della Pergola

Roma, 20 giugno 2025

UN BUON MINISTRO AIUTA, NON CONDANNA

Nel 1965, durante il Concilio vaticano II, una commissione composta da cardinali, vescovi e teologi, decise di cancellare il nome di San Gennaro, protettore della città di Napoli, dal calendario ufficiale dei santi. I napoletani, pur se offesi, risposero con la solita ironia, scrivendo sui muri esterni dei palazzi divertenti ed affilate pasquinate (direbbero a Roma) contro la Chiesa e contro il Papa, esortando il loro beniamino dalla faccia ‘ngialluta (ossia, gialla perché tale il colore dei riflessi dorati che risplendono sul viso della statua che viene portata in processione) a non prendere troppo sul serio la decisione del Vaticano: San Genna’, futtatenne, fu il motto più popolare e affettuoso nei riguardi del martire a cui il clero voltò improvvisamente le spalle. Il declassamento del Santo, oltre all’offesa morale inferta ai seguaci, ebbe come unica ripercussione effettiva il fatto che la Chiesa romana non riconobbe più quale patrono metropolitano la figura di un idolo a santità ridotta, salvo poi relegarlo in extremis ufficialmente a simbolo di una fede circoscritta al luogo del culto. Santo sì, ma fino al Garigliano! Tuttavia, malgrado l’onta, San Gennaro, anche se non più ascritto al calendario protocollare di Gregorio, continuò puntuale a compiere il miracolo dello scioglimento del sangue, fino a quando nel 1980 Giovanni Paolo II lo riabilitò a santo di primo grado: addirittura, lo proclamò patrono ufficiale di Napoli (decisione senza precedenti), spodestando l’intoccabile Madonna Assunta. Terremoto in Paradiso! E per la prima volta, infatti, San Gennaro, sia per rispettare la classifica celeste, sia per ovvii diritti di sacra precedenza, sia per onorare con galanteria la Madre di nostro Signore, e probabilmente sentendosi anche umiliato dal potere ballerino dei discendenti di Pietro che potevano in terra decidere il bello e il cattivo tempo dell’empireo, a prescindere dalla volontà divina, rispose con severità rimanendo quell’anno ostentatamente rappreso nell’ampolla: segno premonitore di catastrofi imminenti. Era il mese di settembre: sessantaquattro giorni dopo l’Irpinia e la Campania furono devastate dal sisma. Un cataclisma – guarda caso – circoscritto al luogo del culto del santo, vescovo di Benevento. Da allora la Chiesa non osò mai più ostacolare credenze e tradizioni che accompagnano il mito di San Gennaro.

09 giugno 2025

La banalità del sistema teatrale

Roma, 9 maggio 2025

CARO BISICCHIA, TEMO CHE IL SUPERFLUO SIA DIVENTATO IL NOSTRO NECESSARIO

Tra le tante notifiche che il cellulare mi elenca ogni mattina, poco prima del caffè, la maggior parte delle quali assolutamente superflue, ne trovo una che desta immediata curiosità: mi suggerisce che il professor Andrea Bisicchia ha pubblicato un nuovo post. Leggo subito e, pur se a malincuore, mi compiaccio per aver trovato in un’autorevole firma un validissimo alleato. Come scrissi il 25 aprile scorso (qui l’articolo), anche Bisicchia ha sentito il bisogno di porre l’attenzione (qui l’articolo) sulla quantità di spettacoli proposti in queste ultime stagioni, un numero esorbitante che crea disorientamento a discapito di una qualità coscienziosa e necessaria. Anzi, scrive l’esimio professore, «oggi sui palcoscenici domina l’eccesso che, per forza di cose, produce esemplificazioni, superficialità e confusione». All’abbondanza dei titoli in cartellone, il professor Bisicchia conferisce una dote d’inutilità superflua, un disordine di stili e di intenzioni, a danno di un più succulento gusto del necessario. Wilde sosteneva che, avendo il superfluo, si sarebbe potuto fare a meno del necessario, ma il sommo irlandese pensava a come farsi beffa delle sciocche difficoltà di un mondo reale, non imputando alla finzione del palcoscenico che, invece, «ci permette di esplorare l’umanità», la responsabilità della nostra laboriosa e complicata sopravvivenza.

02 giugno 2025

«Sarabanda», di Ingmar Bergman

Roma, Teatro Argentina
1° giugno 2025

QUANDO L’AMORE NON RIESCE A INTACCARE IL MURO DELL’ODIO

Che cos’è l’amore? Che cos’è l’odio? Ingmar Bergman cerca di dare una risposta scrivendo i dieci dialoghi che compongono la sua ultima sceneggiatura (del 2003), Sarabanda, riprendendo, trent’anni dopo, il filo del discorso interrotto troppo bruscamente tra Marianne e Johan, protagonisti di «Scene da un matrimonio», film per la televisione del 1973 (in Italia trasmesso nel 1978). Il titolo dell’opera si riferisce al quarto movimento della 5ª «Suite per violoncello solo» di Bach. Il termine risale al XVI secolo quando in Spagna s’indicava una particolare danza di origine, pare, orientale che si ballava su un ritmo dapprima allegro e poi sempre più grave. Per estensione il vocabolo oggi indica un susseguirsi disordinato di accadimenti, di particolari scombinati, ma anche una cascata di cose che si accompagnano a un movimento assai chiassoso. Insomma, una gran confusione. Non è un caso che tra le ultime battute di Marianne a Johan, in «Scene da un matrimonio», c’è una domanda che dice: «Credi che viviamo in una totale confusione?». Una frase che diventa per Bergman il seme che dà alla luce Sarabanda, dove sono i sentimenti a creare quel movimento chiassoso che vibra disordinato nell’animo di certe persone legate a rapporti indissolubili.

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