TRIS DI CECHOV(O LE NEVROSI DELLA DISPERAZIONE)
Straordinarie interpretazioni quelle di Maddalena Crippa, Emilia Scatigno, Alessandro Averone, Sergio Basile, Gianluigi Fogacci, Alessandro Sampaoli, nei tre atti unici cechoviani che Peter Stein ha raggruppato sotto un unico titolo, Crisi di nervi, per evidenziare il disagevole stato emotivo di cui son succubi i protagonisti delle differenti vicende. I quali si lasciano trasportare da autentiche pulsioni nevrotiche con evidenti sintomi di attacchi di rabbia, mancanza di respiro, tremori involontari e palpitazioni varie. Ma le tre storie ruotano anche intorno a episodi familiari che hanno come soggetto indiscusso la moglie, o comunque la figura femminile. Che sia essa già vedova, sposata o ancora nubile, la donna è sempre presente, anche quando non è a vista, ma anzi se ne avverte più pressante la minaccia. I testi sono noti: L’orso, I danni del tabacco e La domanda di matrimonio.
Anton Cechov lavora agli atti unici, qui prescelti, tra il 1886 e l’88, ispirandosi al vaudeville francese, allora assai in voga, e tentando una nuova via verso la comicità delle situazioni. Peter Stein, invece, dichiaratamente predilige l’assurdità dei personaggi, per meglio approfondire i loro caratteri contorti, «malati» di nevrosi talvolta croniche. Opta per il grottesco, per il ridicolo, e mantiene, in tutte e tre le prove, alto il livello di apparente serietà: è chiaro che però si ride, e non poco pur evitando di trascendere nel comico. È la tragedia dell’uomo ridotta a commedia che invita al sorriso: la sua solitudine arrabbiata, la sua infelicità mortificata, il suo essere meschino e petulante. I personaggi di Cechov, passati al setaccio dal regista, diventano uomini ancor più impotenti, piccini, anche se con una pistola in mano, anche quando hanno il privilegio di star dietro a una cattedra o nel felice momento di chiedere la mano dell’amata. Dimostrano un’innata fragilità dalla quale non riescono a liberarsi e che li conduce a consuete crisi nevrotiche.
La regia, raffinata e sempre condotta con logica matematica, non è mai invadente, anzi tende ad asciugare qualunque sovrastruttura, annulla gli «infiocchettamenti», ma grazie alle essenziali ed eleganti scene di Ferdinand Woegerbauer e alla peculiarità dei costumi di Anna Maria Heinreich, riesce bene a descrivere tre diversi ambienti e tre differenti situazioni emotive tutte legate da un comun denominatore. Merita di essere citata con attenzione l’apertura iniziale di sipario de «L’orso», quando nel lungo, lunghissimo, silenzio del dolore causato dal lutto, la fotografia del defunto sembra suonare muta una overture, concentrata sugli ammiccamenti sconcertati del servitore (il bravo Sergio Basile), di un’opera, appunto, grottesca che introduce, non soltanto l’atto specifico, ma l’intero trittico. Il più efficace lavoro del regista si riscontra nel meticoloso studio fatto con gli interpreti, un gruppo di attori con i quali collabora da tempo e che, conoscendo con acume, riesce ad accordare perfettamente in un ensemble assai recettivo.
Ivan Ivanovic approfitta di una conferenza sui danni del tabacco per confessare all’uditorio il suo martirio coniugale con una moglie dispotica. Arriva perfino a calpestare in pubblico il frac con cui si è sposato e che ora rappresenta il simbolo della sua infelicità, ma poi appena si accorge che lei lo sta raggiungendo ritira spudoratamente ogni parola detta e torna ad essere il pupazzo di sempre. Gianluigi Fogacci regala al personaggio attimi di gloriosa meschinità: mi si perdoni l’ossimoro, ma la sottile recitazione, giocata anche in questo caso su un ribaltamento, riesce a trasformare il misero difetto dell’uomo in un esemplare pregio attoriale.
Infine, Ivan Vassilievic, giovane, elegante possidente, in questo groviglio di sudditanza nevrotica nei confronti dell’universo femminile, rappresenta la speranza claudicante, che, però, in effetti, in questo mondo tanto misero di valori etici e morali, è la più zoppa e malata delle virtù. Nella domanda di matrimonio Peter Stein sopprime il ruolo di Olga, la madre di Natalia, dal carattere forte, per accentuare la fragilità della figlia che diventa il contraltare della prima figura femminile incontrata in apertura. Natalia (la convincente Emilia Scatigno), sorretta dal padre (ancora Basile in doppia performance), è il prototipo della vibrante spavalderia che, però (secondo il disegno di Stein), di fronte all’incauta provocazione si dimostra incapace di resistere facendo crollare anche l’unica certezza seminata finora: la solidità della personalità di una donna. Sono bravi tutti gli interpreti, l’abbiamo detto, ma (che nessuno si faccia prendere da una crisi di nervi, mi raccomando) Alessandro Averone disegna un Ivan Vassilievic davvero sorprendente, pieno di tic, irrequietezze fisiche, dolori psicosomatici, nevrastenie e coliche biliari, una summa visiva del concetto che il regista tedesco vuol raccontare attraverso i tre quadri cechoviani.
Foto 1 (da sin): Alessandro Sampaoli, Gianluigi Fogacci, Maddalena Crippa, Peter Stein, Alessandro Averone, Sergio Basile ed Emilia Scatigno. Foto 2 (in senso orario): La domanda di matrimonio, L’orso (2) e I danni del tabacco (© Tommaso Le Pera)