C’ERA UNA VOLTA UN TEATRO CHE FECE UN PATTO COL DIAVOLO
Verrebbe subito da dire che l’operazione di Leonardo Manzan è un’ottima novità teatrale, la migliore finora vista durante la prima parte di questa stagione: una conferenza pubblica sul Faust di Goethe, piena di arguta inventiva, di gustose trovate (ma talvolta decisamente disgustose!) e di sorprese teatrali. «La sinossi del dramma – è scritto nelle note – si potrebbe riassumere in una riga: c’era una volta un uomo che fece un patto col diavolo». Similmente, condensando il senso della messa in scena di Manzan, si potrebbe dire: c’era una volta un teatro che fece un patto col diavolo. Per gli autori (è giusto nominare anche Rocco Placidi) il Faust è il teatro, con tutte le sue difficoltà e contraddizioni, con le sue esuberanze e le sue finzioni che possono essere verosimili e false, serie e giocose, equivoche e dirette.
L’idea nasce dal prologo dell’opera di Goethe, nel quale il poeta tedesco immagina l’incontro tra un impresario teatrale, un autore e un attore. I tre dibattono su cosa sia indispensabile per assicurarsi il successo di uno spettacolo. Ed ecco che la conferenza prende vita, secondo il principio dei più moderni talk show: ognuno dice quel che vuole, facendo finta di saper sempre qualcosa in più degli altri. Tutti professoroni inutili! La discussione, naturalmente, non s’innalza mai al livello poetico di Goethe, ma anzi scema e si disperde nell’insensatezza, fino a quando Mefistofele (una eccellente Paola Giannini, dotata anche di ottime doti canore) riesce a mettere ordine in una tavolata governata dall’ignoranza e dalla presunzione. Ma c’è qualcosa che disturba l’effervescenza del satanasso e che lo rende stonato come un Paperinik materializzatosi in un’asettica infermeria di un policlinico: il diavolo diventa una ventata di spontaneità nel mondo di oggi, nella nostra epoca, con i nostri modi affettati, innaturali, le nostre passioni assopite, il linguaggio monotono e senz’anima, l’indifferenza con la quale si gestisce il male e il bene. Tutto questo, secondo Mefistofele, non è la giusta maniera per vivere, per godersi la vita. Viene tacciato, quindi, d’essere un diavolo d’avanspettacolo, un diavolo da baraccone, uno che ha sempre una scenetta ad effetto da esibire.
E le scene, infatti, si susseguono assai significative, incastrandosi l’una nell’altra, cercando di tanto in tanto di recuperare il clima noioso della conferenza, ma per fortuna in presenza di Mefistofele questo strazio diventa impossibile. I quadri si alternano mostrandoci quanto siamo diventati ridicoli con questo maledetto timore di ledere la sensibilità degli altri. E allora eccoci rappresentati come fantocci privi di libertà e di autentici sentimenti: così parliamo d’amore senza amore, così facciamo sesso senza sesso, così ostentiamo idee senza idee. Mefistofele insinua che la nostra correttezza non è più un’educazione ma ormai una persecuzione che ci ha reso tristi e alla quale ci siamo adeguati. E la vittima prescelta è Faust che vorrebbe portare in scena il suo dramma – proprio come suggerisce Goethe – in un teatro che però non esiste più; dove il sipario resta chiuso; e dove i direttori degli stabili, per costruire il cartellone delle stagioni, improvvisano una sorta di mercante in fiera. Un teatro dimenticato, come Margherita dispersa all’inizio del dramma, ma mai dimenticata dal protagonista. Perché Margherita è un sogno, perché Margherita è il sale / Perché Margherita è il vento e non sa che può far male / Perché Margherita è tutto, ed è lei la mia pazzia. Un inno al teatro.
Ci sono momenti nello spettacolo di Manzan – come questo dedicato alla donna, esaltata dalle parole della canzone di Cocciante – davvero commoventi, ma volutamente disordinati, convulsi, sporcati da una logica antiteatrale, che paradossalmente diventa metateatrale. Un gioco continuo ed incessante di inequivocabile fatua rappresentazione che si alterna con veri e propri atti sovversivi: si ha l’impressione che in scena si verifichino brevissimi tentativi rivoluzionari che hanno la funzione di riaccendere la speranza di una possibile vitalità, tuttavia Mefistofele è lì, ed è il meno coinvolto in queste prove di ribellione, e cinicamente ci suggerisce che, se dev’essere il diavolo a insegnare al mondo cos’è l’amore, allora per l’umanità è meglio il suicidio. E Faust, che fino a quel momento aveva cercato di sbarazzarsi del suo sodale, alla fine lo prega di non abbandonarlo più.
In palcoscenico la confusione d’idee e d’intenti solitamente non porta a nulla di buono, ma il teatro è quel luogo dove ogni regola è valida quando diventa imprescindibile anche il contrario. E se la confusione trova un valido sostegno nella recitazione, ben venga quel goliardico divertimento, quel tentativo audace di ribellione, capace di smuovere le apatie di un mondo che s’è assopito nel torpore della buona educazione finta e addomestica, mediocre e stereotipata. La confusione di Faust, il suo spaesamento, le sue insicurezze, sono la radiografia del nostro tempo, la poetica della nostra infelicità. «A cosa siamo disposti per essere felici?», è la domanda iniziale a cui non c’è risposta.
Foto: (da sin.) Jozef Gjura, Paola Giannini e Alessandro Bandini (© ???)