25 aprile 2025

Pensieri sottopalco

Roma, 25 aprile 2025

IL GRIDO SOMMESSO DEL MIRACOLO «SOSPESO»

Da qualche giorno una domanda sulle sorti del nostro teatro torna costantemente a solleticarmi la ragione. Una fedele lettrice mi ha chiesto se «tutto questo teatro mordi e fuggi è utile, oppure la quantità degli spettacoli sta distruggendo il senso di questo formidabile strumento?». Non voglio deludere la cara amica, se la conferma – ahinoi, piuttosto ovvia – smorzi ogni bagliore di speranza. D’altronde, in un articolo del settembre 2023 (che all’epoca suscitò molte polemiche), denunciai il problema, quando una sala off presentò la stagione con 46 spettacoli in cartellone: e oggi, purtroppo, registriamo la notizia della prossima chiusura di quel palcoscenico, che – naturalmente si dirà – è stata causata da diverse avversità. Tuttavia, la logica più elementare ci impone di valutare che se un numero minore di spettacoli avesse mantenuto alta la qualità, e quindi gli spettatori fossero accorsi numerosi, di conseguenza un più sostanzioso ritorno economico avrebbe reso gli animi dei proprietari e dei gestori propensi a concordare un’altra annata, anziché annunciare lo scioglimento della collaborazione (il cui corollario potrebbe riservare, come decisione definitiva, anche il cambiamento di destinazione d’uso del fascinoso e amabile locale).

Non è detto, però, che il ragionamento segua questo percorso, elementare, sì, ma legato a un periodo in cui il teatro viveva di tutt’altra educazione e di tutt’altra organizzazione. Anzi, temo che purtroppo non ci sia più alcuna coerenza tra la qualità degli spettacoli, il numero degli spettatori e la sorte alla quale i teatri privati sono esposti. Mi riferisco a quando le platee non erano infinite come oggi che, anche se il numero dei teatri maggiori è in forte calo (a Roma, come in altre città e in tutta Italia), cresce a dismisura il fabbisogno di aprire nuove sale minori, e salette – si potrebbe dir di contrabbando! – che ospitano spettacoli che altro non sono che il prodotto di uno stormo di attori e attrici annualmente diplomati nelle varie scuole di recitazione. Una miriade! Tuttavia, mentre la domanda iniziale dell’amica, trova una risposta sicura nella certezza che l’esorbitante quantità di spettacoli non aiuta a sostenere la qualità degli stessi, queste conseguenziali considerazioni restano ingarbugliate come un filo da pesca attorcigliato al sughero e disperso in alto mare. Ci si chiede perché un teatro chiuda i battenti, e come possa accadere un tal misfatto. «Sono finiti i soldi», è la sentenza più comune e sempliciotta. Ebbene, credo che tanta superficialità non possa in alcun modo garantire ad altri teatri di rimanere attivi. Bisogna andare a fondo. Non è soltanto una questione di vile denaro.

LA QUALITÀ. Per quanto riguarda la qualità, sarebbe bene che i gestori dei teatri off comincino a selezionare i prodotti e a garantire una più lunga tenuta alle opere meritevoli, evitando di trattare (anche economicamente) tutti gli artisti alla stessa maniera. L’eguaglianza e la democrazia non assicurano una stagione teatrale di buona qualità. La consuetudine di applicare indifferentemente a chiunque il famigerato 70/30 (70% degli incassi alla compagnia e il 30% alla gestione), senza valutare l’effettiva validità del prodotto, è il modo migliore per fallire insieme o, tutt’al più un espediente per non annegare, ma non certo per godere a lungo dei successi che il gestore di una sala si augura. Sarebbe meglio far subito affondare chi non si regge a galla per mantenere vive e vegete le strutture che sono l’asse portante del meccanismo, e conservare il posto ai rematori più abili e competenti. La convinzione m’è balenata giorni fa, quando entrando nella bella chiesa di San Luigi dei Francesi, accanto al Senato, ho constatato che una lunga fila di visitatori era in ordinata attesa per ammirare i dipinti del Caravaggio, disinteressandosi completamente sia al Dominichino che al Guido Reni (che non sono proprio gli ultimi arrivati!). Che vuol dir ciò? Che la qualità artistica di un grande maestro senz’altro chiama la folla: e su questo si può far affidamento. E se la voce corre, la gente che ama il teatro, a teatro viene. Ma bisogna lasciare il tempo alla voce di espandersi. E soprattutto bisogna dar la possibilità al maestro in pectore di diventar tale, altrimenti resterà sempre un debuttante.

Un allestimento, pur se messo su con pochi denari e sotto l’egida di produzioni che prestano il loro nome soltanto per attuare il solito raggiro dei borderò, potrebbe anche rivelarsi uno spettacolo coi fiocchi, magari ancora in nuce, forse in attesa di essere apprezzato da chi potrebbe investire una certa somma per farlo crescere e fiorire, ma se a questo spettacolo i gestori concedono soltanto 3 o 4 giorni (facendo capire che sono loro i primi a non aver fiducia nell’operazione) quale chance si può offrire a chi ha lavorato con ingegno artistico per oltre un anno a un prodotto teatrale che ha il tempo appena di veder la luce per essere immediatamente seppellito nella fossa del «poi si vedrà» o del «ritenterò l’anno prossimo»? Come può un buon autore alle prime armi o un ottimo regista debuttante valutare il suo operato con un pubblico composto per lo più da parenti e amici? Cari gestori di teatri e teatrini, ora mi rivolgo a voi direttamente che siete i primi esaminatori. Passatevi una mano sulla coscienza e cercate di porgerla a chi se la merita. Se c’è da dire a qualcuno che il suo spettacolo è una schifezza, occorre dirlo con garbo e sincerità, perché è giusto che non prendiate rischi inutili; ma se sentite che invece «la cosa» funziona tenetela in cartellone e rischiate un pochino anche voi. Non dico che tutti devono lavorare gratis come il sottoscritto, ma almeno puntate su quei purosangue favoriti che con il loro valore possono ambire a un pubblico che va oltre il loro giro delle amicizie.

IL MIRACOLO. Tante volte, al momento degli applausi finali, ho sentito declamare al primo attore il melanconico piagnisteo: «Se lo spettacolo vi è piaciuto ditelo in giro, se non vi è piaciuto fatevi i fatti vostri». Che tristezza, che squallore rievocare battute che hanno perduto la loro freschezza e la loro efficacia! Che il teatro viva di passaparola è risaputo da alcuni secoli: oggi poi che anche la critica è tanto effimera e dispersiva e le notizie di teatro vengono rigettate dai quotidiani come fossero carte da cestinare, bisogna assolutamente affidare alla voce dei più entusiasti la divulgazione dell’evento. Ma, signori miei, ci vorrebbe un miracolo! Un miracolo a cui occorre dare la remota possibilità di concretizzarsi: se lo spettacolo resta in programma per tre/quattro recite al massimo, come si può pretendere che avvenga questo miracolo? Se san Gennaro, arrivando in sogno, suggerisse un terno, la soffiata notturna andrebbe concretizzata in una puntata diurna prima del sabato seguente, altrimenti l’eventuale vincita resta una chimera avvolta nel limbo di una nuvoletta ferma al chiaror dell’alba. Quindi, se per miracolo la voce dell’amico cortese e dello spettatore entusiasta riuscisse davvero a correre per le vie della città e ad annunciare a squarciagola il vostro successo e arrivasse a smuovere qualcuno dalla poltrona di casa fino a portarlo verso la platea, voi, cari attori, vi dovete far trovare pronti in palcoscenico, altrimenti il miracolo resta sospeso. E che ce ne facciamo di un «sospeso» se nessuno se ne serve?

LA CRITICA. A proposito di critici! Anche loro dovrebbero avere il tempo di vedere lo spettacolo, di valutare le loro sapienti riflessioni e di scriverle in modo da convincere qualcuno a correre in teatro o magari a mantenersi alla larga. Purtroppo, la velocità con cui gli spettacoli si alternano in palcoscenico getta discredito anche sulla critica, la quale inevitabilmente arriva in ritardo, e, come succede per i più consueti appuntamenti, quando il ritardatario è recidivo perde la fiducia di chi gliel’aveva concessa. Qualcuno – sempre il solito sottoscritto – cerca di far le capriole per stare dietro alle tante richieste e opportunità di recarsi in quel posto o in un altro; tenta di rispettare il ritmo scrivendo di notte (che è un gran piacere!), ma questo non basta. Anche perché la critica generalmente è diventata «finta», ancor più finta della finzione scenica che almeno si fonda su un principio di verosimiglianza. Se c’è una recensione che parla male di uno spettacolo ce ne sono altre dieci che affermano il contrario, perché spesso scritte da penne poco esperte, oppure da quelli che più che critici restano amichetti che in cambio di un «ridotto» vedono mirabilie anche nel sottobosco più oscuro, oppure da approfittatori seriali che trovano così il lasciapassare per scroccare uno spettacolo a sbafo. Confesso di aver raffreddato più di un’amicizia con la mia obbiettività: me ne dispiace moltissimo. Mi sarebbe dispiaciuto molto di più, però, conservare un sodalizio con l’inganno, per il semplice motivo che nessun inganno alimenta solidarietà al di fuori del mercato.

IL VIZIO. Una volta anche il pubblico più provinciale era competente di teatro; sapeva discernere un artista da una «faccia tosta»; apriva le orecchie quando ascoltava recitare e se le tappava quando sentiva abbaiare; al termine della performance usava le mani per applaudire o le labbra per fischiare, e il primo giudizio veniva decretato direttamente in platea, a sipario appena chiuso. Ma era un’epoca romantica, quando gli autori si chiamavamo Pirandello e D’Annunzio, gli attori erano Zacconi e Ruggeri e i critici Praga e D’Amico, e soprattutto il teatro era diventato il vizio preferito degli italiani, dopo il fumo. «Qualche spettatore pacifico – cito testualmente da Ciascuno a suo modo – fumerà, e fumerà la sua noja, se annojato; i suoi dubbi, se dubbioso; poiché il vizio del fumo, come ogni altro vizio divenuto abituale, ha questo di triste, che non dà più, se non raramente, gusto per sé, ma prende qualità dal momento in cui si sodisfa e dall’animo con cui si sodisfa. Potranno così fumare, se vogliono, anche gli irritati, e ridurranno in fumo la loro irritazione.» Segno evidente che Pirandello seguiva con una certa attenzione le reazioni degli spettatori durante l’intervallo delle rappresentazioni delle sue commedie e notava che comunque tutti, o quasi, erano presi dal dramma e se ne portavano i fumi nel foyer durante l’intervallo. Ma oggi è vietato fumare, di conseguenza è vietato annoiarsi e vietatissimo irritarsi. Buon 25 aprile! (fn)
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Foto: caricatura di Ermete Zacconi, visto da Umberto Onorato

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