COME UNA MANTIDE, RUTH DIVORA I SUOI UOMINI
Il ritratto della famiglia è stato, nel teatro del Novecento, argomento tra i più battuti e dibattuti. Harold Pinter, per riuscire a sgretolare i classici schemi, sceglie un nucleo sciolto dalla figura materna, dalla brava mogliettina che mantiene le redini comportamentali e morali, e in The homecoming, abbandona la conduzione della casa nelle mani di Max, vedovo con tre figli e un fratello. Subito, ad apertura di sipario, la sciatteria più del disordine, l’arredamento liso più del contorno (la scena è di Maurizio Balò) che invece appare sontuoso seppur vetusto, la cialtroneria della posizione di Lenny disteso sulla greppina e l’indolenza della camminata di Max, vestito senza alcuna decenza (di Gianluca Sbicca i costumi), danno l’impressione che l’andazzo in casa è piuttosto lassista, al limite del dissoluto. Infatti, un attimo dopo, l’anziano genitore, cresciuto a «ceppo e mannaia» nella macelleria del padre, per rimproverare il figlio, gli getta addosso il contenuto di un posacenere che resterà in terra, senza che qualcuno si preoccupi di ripulire.
Manca una donna – si direbbe, tenendo presente che la commedia è stata scritta nel 1964 – e l’assenza femminile, oltre a creare un eccesso di vistosa immoralità e sporcizia, esalta criticamente un abietto maschilismo che si ritorce su se stesso fino al momento in cui giunge il terzo figlio, con la moglie Ruth, che nessuno conosce. Il Ritorno a casa improvviso di Teddy con una donna giovane e affascinante è la mela che casca nel porcile: tutti ne vogliono approfittare, malgrado i pesanti insulti con i quali la donna è stata accolta. Nel suo silenzio, nella sua accondiscendenza a sentirsi apostrofata come «lurida prostituta» va trovata la soluzione dell’enigma che sarà svelato in seguito. La commedia vive di ambiguità e di provocazioni: nelle trovate dell’autore, nel linguaggio e soprattutto nella soluzione finale che ci fa capire quanto il maltrattamento e lo sfruttamento delle donne fosse, già all’epoca, un tema osservato e condannato (purtroppo da pochi).
Massimo Popolizio, regista e protagonista in scena, recupera tutto il senso del trivio e dell’immoralità descritta dall’autore e lo colora di artata volgarità, scegliendo di pigiare il pedale dell’esagerazione, ma facendo attenzione a mantenersi a debita distanza dal grottesco: una scelta che resta in bilico tra il Pinter, severo fustigatore delle nostre abitudini, e una finzione eccessiva, quasi paradossale, che esula dal contesto pinteriano. In effetti, pur rimanendo ancorato agli anni Settanta (l’opera fu rappresentata per la prima volta in Italia nel 1974), quando ancora l’Europa si beava di aver individuato la strada per le libertà sociali (in scena si vede la testa di una mucca imbalsamata che sembra puntare le corna dritte al ritratto della regina Elisabetta!) e individuali, il regista ripropone l’irruenza cialtrona dei nostri giorni nei caratteri di Max e dei figli, Lenny (Christian La Rosa, che quando non va per Lidi è un ottimo attore) e Joey (Alberto Onofrietti, che dell’ambiguità tra timidezza e sfrontatezza ne fa il punto di forza). Questa la parte becera della famiglia, tutta prepotenza e villania, che bistratta la pacata educazione al rispetto del prossimo e del dovere di Sam, il germano buono (ottimo Paolo Musio che disegna, con pochi tratti di ribellione e molti di sottomissione, un piccolo travet della sofferenza e della mestizia), capo chino di fronte alla spavalderia offensiva del fratello, vive di silenzi sopportando angherie.
Il personaggio di Ruth (la conturbante Gaja Masciale) è il più complesso. Se non è lei la protagonista, lei diventa il centro della situazione, l’oggetto del desiderio e della speculazione. Viene usata con spregevole disinvoltura e con astuzia si fa usare per attirare i maiali al facile e prelibato boccone che si rivelerà avvelenato. Si fa vittima per diventare carnefice e ribaltare la mentalità maschilista su chi avrebbe voluto approfittarne. Si esibisce prima in una masturbazione adescatrice (per la verità fuori contesto) e poi, ormai già seduttrice di professione, come ballerina di pole dance (una prova poco convincente, sia come esecuzione che come ideazione). Come una mantide che divora il maschio dopo l’accoppiamento, Ruth è il personaggio più ambiguo: appare in scena come ottima moglie e come madre premurosa, ma poi si comporta in tutt’altra maniera. Fin qui nulla di particolarmente insolito, ma quando il marito (Eros Pascale che durante l’intero arco della commedia fatica a ritrovare familiarità con i fratelli, con il padre e con lo zio) decide di ripartire dicendo alla moglie che tornerà a casa dai figli, la madre non esiste più, evaporato inspiegabilmente qualunque sentimento materno. Mi chiedo se una frattura così evidente dipenda dall’autore, dalla regia o dall’attrice? Temo che la regia non abbia aiutato l’interprete!
Foto: Paolo Musio e Massimo Popolizio (© Claudia Pajewski)