07 maggio 2025

«La banalità dell’amore» di Savyon Liebrecht

Roma, Teatro India
6 maggio 2025

HANNAH E MARTIN TRAVOLTI DA UN INSOLITO DESTINO

Chi vive nel male non si rende conto di vivere all’inferno, così come – all’opposto – chi vive nell’amore non si rende conto di vivere in uno stato grazia. Sono le due facce della stessa medaglia che Savyon Liebrecht mette insieme in un testo per il palcoscenico, del 2007, dedicato ad Hannah Arendt, «teorica della politica» (come lei stessa si definisce) vissuta in Germania nella prima metà del Novecento, vittima delle leggi razziali naziste, fuggì prima in Francia e poi negli Stati Uniti, per le sue origini ebraiche. Nel 1961 la Arendt, inviata per il New Yorker, seguì il processo Eichmann a Gerusalemme, e successivamente raccolse gli articoli in un libro dal titolo ormai famoso, «La banalità del male», in cui si evince che i crimini attuati dalle SS furono azioni commesse da persone assorbite da una realtà malata e incapaci di pensare; quindi, non in grado di valutare l’orrore che stavano perpetrando. «Non era stupido – scrive la Arendt di Eichmann, ascoltando la sua deposizione – era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza di idee ne faceva un individuo predisposto a divenire un criminale». Teoria che le fece comprendere quanto banali fossero le motivazioni di quel male.

Da qui, l’intuizione dell’autrice di capovolgere il titolo e scrivere La banalità dell’amore, opera che, con la scusa di voler trovare un chiarimento alle polemiche che seguirono in Israele dopo la pubblicazione della raccolta degli articoli sul processo Eichmann, scandaglia il lato sentimentale della Arendt, rimasta per tutta la vita innamorata e alleata spirituale (di quello spirito hegeliano che plasmò la più alta cultura tedesca) di Martin Heidegger, illuminato filosofo che però appoggiò la politica nazionalsocialista di Hitler. Martin e Hannah si conobbero negli anni Venti: professore e allieva all’Università di Marburg, intrecciarono un legame molto intenso; poi lei si laureò ad Heidelberg e successivamente la politica sempre più aspra del Terzo Reich li separò in maniera definitiva. O quasi. Hannah, infatti, malgrado le scelte illogiche e inaspettate del professore, riuscì a conservare intatta la sua passione. In questa incapacità di valutare con fredda lucidità il proprio sentimento rimasto agganciato al passato indelebile, si cela la banalità di un amore.

La Liebrecht prende spunto dall’incontro tra un sedicente universitario in procinto di voler intervistare la famosa studiosa (1975), alternando quel momento con spezzoni di vita passata, gli anni Venti (1924/28), che videro la Arendt inebriata dal grande amore. Tra la serenità e le aspettative di ieri e la severa realtà dell’oggi si sviluppa il racconto della vita di una delle personalità intellettuali più solide del Novecento. In scena, Anita Bartolucci da una parte e Mersila Sokoli dall’altra sono entrambe Hannah: una coi capelli bianchi, pronta a spiegare le sue ragioni politiche e a polemizzare sul sionismo, mentre la seconda è la giovane studentessa inesperta e sedotta dal fascino del filosofo. È una scrittura ricca di contrasti che dipinge due caratteri molto diversi della stessa persona: una è incantata dalle belle speranze che libri e teorie fomentano, l’altra disillusa e indurita dalle atrocità vissute e raccontate con la perizia di una studiosa del male nazista, ma laureata – guarda caso – sul tema dell’amore in Sant’Agostino. L’ennesimo contrasto di una precisa logica drammaturgica.

È una storia di accuse e difese costruita sulle contraddizioni e sui tradimenti ideologici più che sentimentali: Hannah tradita da Martin, dalla Germania, da Israele; Heidegger tradito dalle sue convinzioni nazionalistiche, da Hitler nel quale aveva creduto; anche il giovane Raphael si sente tradito da sospetti che non trovano una soluzione. Ed è per questo strano caso di intenti, l’uno in opposizione all’altro, che dalle pagine di storia e da un approfondito studio dell’epistolario tra la Arendt e Heidegger, vien fuori all’improvviso un risvolto d’attualità da far impallidire i più ferrati commentatori della guerra tra Israele e Palestina. La Arendt, ebrea, punta il dito severamente sul movimento sionista che nella storia non ha mai voluto prendere in seria considerazione la realtà araba, dimenticando l’esistenza dei popoli locali: un discorso che trova le sue motivazioni addirittura nell’Antico Testamento.

Piero Maccarinelli propone un allestimento assai misurato, ben bilanciato, procedendo per quadri temporali, che si incastrano nella scena di Carlo De Marino, il quale visivamente predilige l’appartamento newyorkese dove avviene l’intervista, alla baita di montagna in Germania dove sboccia l’amore tra l’allieva e il professore. Molto bravi gli attori. La Bartolucci trova nella severità della protagonista anche il modo di seminare qualche sorprendente ironia tra le polemiche storiche e le rigidità sentimentali. Spesso seduta in poltrona, non cede mai all’abbandono. Caratteristica che invece serve alla Sokoli per interpretare i vent’anni di Hannah e i turbamenti d’amore; ma anche pronta, all’occorrenza, a sfoderare rigore e severità. Pacato e convincente Claudio Di Palma nel ruolo del filosofo, amabile e cordiale all’inizio, ferito irreversibilmente nell’animo nell’ultima scena. Ardimentoso e quasi sfacciato Giulio Pranno nel ruolo del giovanissimo intervistatore. (fn)
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La banalità dell’amore, di Savyon Liebrecht. Con Anita Bartolucci (Hannah Arendt), Claudio Di Palma (Martin Heidegger), Giulio Pranno (Raphael Mendelsohn e Michael Ben Shaked), Mersila Sokoli (Hannah Arendt giovane). Scene, Carlo De Marino. Costumi, Zaira De Vincentiis. Disegno Luci, Javier Delle Monache. Musiche Antonio Di Pofi. Regia, Piero Maccarinelli. Produzione: Teatro di Roma (Teatro Nazionale). Al teatro India, fino al 18 maggio 

Foto: Claudio Di Palma e Anita Bartolucci (© Claudia Pajewski)

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