12 marzo 2025

«Moby Dick alla prova» di Orson Welles

Roma, Teatro Vascello
11 marzo 2025

IL PEQUOD NEI MAROSI DEL COVID

Quando un’opera di teatro è scritta in versi e lo spettacolo acquista spessore drammatico soltanto dalle parti musicali, non è un buon segno. Eppure, il Moby Dick alla prova, proposto da Elio De Capitani, è impresa costruita con una vivace inventiva e molta precisione, tanto impegno e seria professionalità; peccato, però, che il criterio intellettuale di partenza, ambiguo ma calzante, appena uscito dal porto di un prologo palpitante di buone intenzioni, in pieno oceano, naufraghi clamorosamente in un contesto dal retrogusto circense. Non conosco l’originale di Orson Welles, ma sospetto che, durante la stesura dell’adattamento, gli artefici si siano lasciati prendere la mano da un certo squilibrato spirito piratesco più che dalla intransigenza della poesia che, per quanto sia a volte impalpabile, mantiene un tessuto letterario assai severo e concreto.

Sin dai tempi di Ulisse l’immensità del mare ha rappresentato per l’uomo la possibilità d’evasione, la speranza di una libertà senza freni, l’incognita avventurosa verso lidi inesplorati: presupposti che se vengono affrontati in cattività diventano irresistibili chimere, prendendo il sopravvento come il canto delle sirene sui malcapitati sognatori. C’è una lunga scena che si svolge a bordo del Pequod, durante la quale Acab e la sua ciurma indossano delle maschere che imbavagliano narici, bocche e mento di ciascun marinaio. A lungo, mentre osservavo la curiosa bizzarria, mi son chiesto il motivo di quella strana museruola che schermava le labbra. La spiegazione è arrivata al termine della rappresentazione, quando De Capitani, dopo gli applausi, ha raccontato il processo creativo dello spettacolo nato durante il Covid, quando, nel pieno della cattività, la compagnia si chiuse in teatro a lavorare con l’obbligo di mascherine e di distanze da rispettare.

A parte il fatto che il senso di un particolare della regia non deve essere svelato dal capocomico a sipario ormai chiuso, ma si dovrebbe rivelar da sé al momento dell’esposizione, c’è da dire, al lume di queste confidenze extra drama, che il retaggio coercitivo imposto dalle regole adottate durante la pandemia aleggia in tutto lo spettacolo: non soltanto le maschere (che non hanno nulla a che fare con la caccia alla balena bianca) sono rimaste, dal 2021, incollate sul muso degli attori in ricordo di un periodo che speriamo non torni mai più, ma fin troppo evidenti risultano le distanze tra i protagonisti. Le trovate, per esempio, di posizionare il mozzo su un’altalena e i marinai in cima alle scale, come se stessero sul pennone dell’albero maestro, sono certamente inquadrate nello spirito piratesco e nelle possibilità di un veliero, ma alla lunga – sali e scendi, urla e canta – diventano un’illusione circense più che un dramma costruito in versi sciolti.

L’introduzione che mette a paragone Re Lear con il capitano Acab, molto fascinosa, e tipica di Welles, sempre attento alle allegorie dei grandi personaggi letterari, si disperde tra rulli di tamburi ed effetti sonori (ideati ed eseguiti magnificamente dall’impeccabile Mario Arcari) che diventano i protagonisti indiscussi delle emozioni che si vogliono elargire. La storia, dopo un principio teatrale e addirittura metateatrale, che implica (oltre a Shakespeare) anche il pubblico, prende tutt’altra piega. Dai semi di argomentazioni letterarie sulla poesia e sul teatro, poste come premesse, la rappresentazione trova nei canti del primo atto i momenti più densi e spettacolari a discapito della parte declamatoria. Allora c’è qualcosa che non va! Soltanto l’incantevole prova di Giulia Viana (che in certi giochi di toni e di movenze ricorda un’altra indimenticabile Giulia del più nobile palcoscenico milanese) riacciuffa la tragedia del Bardo quando Pip, il mozzo, s’atteggia con icastica nostalgia al Fool di Lear.

Molto ben organizzata la ripartizione della nave: ci sono gli alberi (che, abbiamo detto, sono scale), c’è il cassero riservato al capitano (una pedana mobile con una sedia da barbiere che era il trono di Lear), ci sono le scialuppe (tavoli di metallo che scivolano sulle rotelle e all’occorrenza diventano lamiere da sbatacchiare a ritmo incandescente), e soprattutto c’è una ciurma affiatata e convincente. Peccato che in locandina i loro nomi siano elencati alla rinfusa e quindi non individuabili: solito menefreghismo delle produzioni a scapito degli attori!

Dopo l’intervallo, il sipario si riapre con le immagini proiettate su un telo teso in proscenio: balene che nuotano nell’oceano. Un filmato in stile Quark, scelta realistica assai azzardata che stride non poco con l’impianto scenico completamente astratto. «Rimediate con l’immaginazione ai nostri impedimenti», ci aveva avvertito il regista all’inizio. E a quali impedimenti dovremmo supplire se possiamo scrutare, con occhio sgombro da immaginazione, finanche sotto i mari? Nel secondo tempo, fatta eccezione di qualche sonorità vocale, anche le canzoni spariscono e il racconto si concentra decisamente sull’avventura entusiastica della caccia alla balena, sulla tempesta che s’avvicina, sull’incontro di due navi nell’oceano, sullo spruzzo verticale che s’innalza davanti alla prua del Pequod e infiamma d’ardore Acab, vedette e ramponieri; insomma, si concentra su alcuni episodi tra i più significativi (compresa la leggenda biblica di Giona) descritti da Melville e che si sviluppano come da romanzo. Con una trovata bizzosa, però: che l’Acab interpretato da De Capitani viene nominato più volte «Capitano, mio capitano». Sarebbe questa la poesia?

L’interprete principale, convincente nell’atto di prepotenza, non riesce a incarnare l’assoluto, qual è l’Acab di Melville: «un uomo simile a Dio». Imbrigliato dalla zoppia della gamba posticcia, lascia la precedenza al fascino della scena, alle sonorità che accompagnano i dialoghi, ai canti, al suono della sua stessa voce che, filtrata dai microfoni, risulta falsata, troppo spesso vanamente impetuosa e mai scandita sul verso. A proposito, se il testo è scritto in versi, perché ignorarli? Anche Cristina Crippa non esprime il meglio, non può: in pratica senza un vero ruolo, isolata in un’altra epoca e in un altro contesto recitativo, si dibatte – mi si consenta l’umoristico paragone – come un pesce fuor d’acqua. Tuttavia il grande telo di seta grigia, agganciato a uno stangone di cantinelle sul fondo, issato in alto alla partenza del Pequod (e che molto ricorda le belle scenografie di Aldo Terlizzi), diventa l’autentico elemento poetico: vela della nave gonfiata e sbattuta dai venti, leviatano in assetto di carica, mare che tutto ricopre. La seta in palcoscenico risolve, affascina e detta i tempi di luci e ombre. Magie di un altro teatro. (fn)
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Moby Dick alla prova, di Orson Welles. Adattato (prevalentemente in versi sciolti) dal romanzo di Herman Melville. Traduzione di Cristina Viti. Uno spettacolo di Elio De Capitani. Costumi, Ferdinando Bruni. Musiche dal vivo, Mario Arcari. Direzione del coro Francesca Breschi. Maschere, Marco Bonadei. Luci, Michele Ceglia. Suono, Gianfranco Turco. Con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcari. Coproduzione Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino. Al teatro Vascello, fino al 16 marzo

Foto: Michele Costabile, Elio De Capitani ed Enzo Curcurù (© Marcella Foccardi)

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