01 settembre 2010

La vera storia di Pujol: le Petomane de Paris

Joseph Pujol

L’UNICO ARTISTA CHE NON PAGA DIRITTI D’AUTORE

Sul finire degli anni Settanta, durante una spensierata serata – fino a una ventina d’anni fa si usava spesso godere di queste libere evasioni poco impegnative ma estremamente salutari – un gruppo di amici, ognuno con bicchiere alla mano e un sorriso scevro da ipocrisie, cominciò a scherzare goliardicamente sui benefici del peto, a ricordare vecchi aneddoti a tema e a sollecitarne una giusta riconoscenza. Intendiamoci, era una cena all’aperto in tarda estate, in un bel giardino di una villa sul litorale romano. L’anfitrione era un attore, ormai scomparso, forse bravo, forse eccelso; sicuramente un uomo che ha amato la vita e ha professato l’arte della risata per sé, al di là del suo mestiere. Aveva un hobby: cucinare per mangiare insieme con i suoi amici, e la sua casa era aperta a tutti («anche ai ladri», si diceva!); per loro preparava ricette prelibate e in abbondanza, tutte condite da leggerezza e allegria. La conduzione istrionica dell’argomento, iperbolico per certi versi, fu scandita da un numero infinito di risate che testimoniarono quanto gli astanti (soprattutto di genere femminile) apprezzassero il lato gradevole di quel difetto gassoso di cui spesso invece ci si deve vergognare. Non immaginiamo quale tra quelle genialoidi menti partorì l’idea di girare un film sul peto, ma certamente lì, quella sera di molti anni fa, fu posta la prima pietra per il progetto de Il petomane. Bisognava costruire un plot, scegliere una trama, individuare l’ambiente più idoneo. Insomma, si fece subito un giro di ricognizione storiografica per capire quale periodo avrebbe potuto ospitare, con discrezione sicuramente, ma anche con irresistibile effetto comico, un degno omaggio al peto!

Probabilmente – non lo sappiamo con certezza – il lampo venne proprio a Ugo Tognazzi, l’amico cuoco, protagonista poi del lungometraggio: certamente fu lui che fece prima un repentino dietrofront («per salvare le apparenze», sussurrarono le solite indiscrezioni) e poi cedere alle insistenze di altri che lo spinsero ad accettare la parte che rinnegò fino al giorno in cui spuntò una storia autentica. Fu rintracciato, infatti, un libricino scritto da due francesi, Jean Nohain e François Caradec, pubblicato nel 1965, una biografia su un certo Joseph Pujol. E su questo personaggio fu scritta, tra finzione (molta) e (poca) realtà, la sceneggiatura, approvata dallo stesso Tognazzi, da Pasquale Festa Campanile, il regista che avrebbe diretto le riprese, e quindi da un produttore. Nel 1983 Il petomane uscì nelle sale di tutta Italia. Da allora il nome di Pujol divenne appena più familiare, ma finì presto nel dimenticatoio perché il film non ebbe un grandissimo successo, forse perché gli sceneggiatori (tra cui spicca il nome di Enrico Medioli) commisero la leggerezza di fidarsi poco della realtà, preferendo accostare al protagonista centrale una donna (Mariangela Melato) affinché si potesse costruire una storia d’amore alquanto surreale, in una Capri dissociata dal contesto.

Fino ad allora pochissimi in Italia conoscevano la fenomenale personalità di Joseph Pujol, un uomo davvero straordinario, quantunque riservato e mesto. E coloro che ricordano il film non possono sapere chi fu il vero petomane, anzi, alla francese, Le petomane: l’unico artista che non paga diritti d’autore, come si poté leggere sui manifesti del Moulin Rouge, appena fu ingaggiato per quella incontestabile abilità. La sua storia è molto più riservata di come ce la racconta Tognazzi, meno esibizionista, estremamente professionale. Certamente Joseph Pujol deve al peto la sua fortuna, ma seppe ritirarsi appena comprese che la dea bendata gli voltò le spalle, pur se con il massimo rispetto e senza la minima competizione!

Joseph nacque a Marsiglia il 1° giugno 1857 in via degli Incurabili, un segno premonitore, forse! Anche se il suo successo non è d’attribuire a un’autentica malattia, piuttosto (si potrebbe dire) di un malaugurato incidente che egli stesso successivamente seppe sfruttare al meglio. Aveva appena compiuto 3 anni quando andò al mare con la mamma: aiutato dalla genitrice, si immerse completamente in acqua, trattenendo in modo corretto il respiro con naso e bocca, ma (per un’improvvisa reazione al freddo, come spiegarono i medici) rilassò i muscoli rettali assumendo inopportunamente, proprio con quelli, dell’acqua, espulsa senza problemi ma sufficiente a lasciare il segno del… destino. Da quel giorno il fenomeno non si ripeté più e Joseph poté terminare gli studi. A 13 anni cominciò a lavorare come garzone presso un fornaio, prima di mettersi in proprio; mai, durante questo lungo periodo, lo spiacevole episodio si ripeté. Qualche tempo dopo, però, durante il servizio militare, sempre in gita al mare, i commilitoni, cui egli aveva raccontata la prodezza dell’infanzia, gli chiesero se sapesse ancora risucchiare acqua con l’intestino. Joseph goliardicamente si adoperò, scoprendo di poter, senza difficoltà, aspirare e spruzzare liquido a suo piacimento.

Tornato a Marsiglia e sposatosi con Elisabeth Olivier, riuscì a perfezionare la sua particolare abilità imparando a controllare la pressione modulando l’emissione d’aria dall’intestino. Inventò, quindi, un numero dimostrativo che propose in piccoli teatri locali. Si sparse immediatamente la voce e fu presto notato da un impresario, il quale, entusiasmato dalle irresistibili sue capacità, lo incoraggiò a presentarsi a Charles Zidler, direttore del Moulin Rouge. Era il 1892.

All’epoca il Moulin Rouge era il santuario della belle époque, il palcoscenico più ambito cui un artista potesse aspirare. Fu inaugurato qualche anno prima, il 6 ottobre 1889, proprio da Zidler (già direttore dell’Ippodromo di Parigi), insieme a Joseph Oller (proprietario dell’Olympia). Zidler intuì la necessità di un divertissement che attirasse, dopo il tramonto, gran parte del pubblico, assiduo frequentatore delle corse di cavalli, composto da giovanotti eleganti e benestanti in cerca di diversivi allettanti e di qualche facile avventura galante. Confidò all’amico Oller, che di teatri se ne intendeva più di ogni altro, l’idea di proporre spettacoli leggeri in cui musica, balletto e belle ragazze accompagnassero le nottate della più spensierata mondanità parigina, e quindi del mondo; insieme scelsero, tra Pigalle e Montmartre, un palcoscenico ricavato in uno spazio a forma circolare simile a quello dell’interno di un mulino a vento da cui il locale prese ispirazione per il nome. I primi avventori se ne accorsero subito e in pochi giorni si sparse la notizia delle meraviglie del Premier palais des Femmes per l’atmosfera frizzante che si respirava e per gli spettacoli che si rappresentavano. Il Moulin Rouge divenne il tempio della musica, della danza e del divertimento: il can-can fu il nuovo rivoluzionario ballo; la Goule, la beniamina del pubblico; e un certo Toulouse-Lautrec, un geniale omino dalle apparenze grottesche destinato a diventare tra i più innovativi ritrattisti del secolo, il quale con le sue opere contribuì ad ampliare la eco del nuovo locale in tutta Europa. Se ne accorsero anche Marcel Proust e Sigmund Freud!

Charles Zidler, oltre che a ballerine e chanteuse, era sensibile anche all’arte dei comici, e nel suo studio si alternavano ogni giorno decine di artisti, o presunti tali, in cerca di una scrittura. Si racconta che spesso gli bastasse uno sguardo per comprendere il valore artistico del genio o del guitto. Per codesta sua abilità, quando si trovò di fronte la segaligna fisionomia del giovane Pujol, pallido e un po’ triste, il quale sosteneva di essere un vero fenomeno con una particolarità che sarebbe diventata l’argomento del giorno in tutta Parigi. L’impresario, già con l’idea di sbarazzarsene subito, chiese senza prestargli troppa attenzione: «E quale sarebbe questa vostra particolarità?». «Vede signore – puntualizzò il visitatore spiegandosi con tono serio e onesto – io posso respirare con la parte opposta al mio viso». «Come sarebbe?», disse Zidler ancora gelido e distaccato. E l’altro, come un professore a scuola: «Vede signore, i miei muscoli hanno una tale elasticità che io posso, con la mia parte posteriore, aspirare ed espirare come voglio». «Che cosa?», l’impresario non credeva alle sue orecchie. E Pujol continuando: «Stavo dicendo che grazie alla mia provvidenziale funzione io posso assorbire qualsiasi quantità di liquido. Ma non è tutto – soggiunse il fenomeno – posso assorbire aria e farla defluire attraverso una gamma di suoni fra i più vari, e questa è la vera particolarità della mia arte». «Quindi voi riuscireste anche a cantare con…», fece Zidler che solo in quel momento cominciava finalmente a comprendere. «In un certo qual modo, sì, signore». «Bene, fatemi sentire». E qui ebbe luogo innanzi al signor Zidler esterrefatto, l’audizione più incredibile alla quale mai impresario abbia assistito. L’uomo annunciava uno ad uno i suoi suoni che avrebbe emesso: «Tenore… Baritono... Basso... Soprano leggero… Ed ora, vocalizzi...». «Ed un suono che si possa intitolare la suocera, l’avete?», chiese Zidler. Pujol sembrò rifletterci un attimo e poi, con la soddisfazione di aver trovato la chiave adatta, disse: «Eccolo», ed eseguì all’istante. Rapito, l’impresario non perdette tempo e ingaggiò il miracolo vivente su due piedi. In breve la sua fama divenne internazionale, tanto da incuriosire e richiamare personalità da tutto il mondo e da meritarsi una paga giornaliera pari a quella di Sarah Bernhard.

Raccontando di quel tempo, lo scrittore Marcel Pagnol, che fu anche apprezzato regista cinematografico, scrisse che i botteghini registravano incassi formidabili: la più grande attrice dell’epoca, appunto la Bernhard, in una serata raggiungeva gli ottomila franchi; la Réjane settemila; ma c’era «un artista comico al Moulin Rouge che in una sola domenica raggiunse l’incasso record di ventimila franchi». Anche Yvette Guilbert (famosa chanteuse ingaggiata da Zidler) ne parla nelle sue memorie: «La più straordinaria esplosione d’ilarità l’ho sentita al Moulin Rouge, un’ilarità che spesso raggiungeva punte inaudite d’isteria». Un amico del Café Concerto, Jacques Charles scrisse: «Durante l’esibizione del Petomane, la gente in sala letteralmente si torceva. Le donne, svenute nei loro corsetti troppo stretti, venivano trasportate fuori per essere rianimate da premurose infermiere che la direzione aveva disposto nella hall, pronte ad accorrere». Pare, insomma, che il Moulin Rouge non abbia mai conosciuto delirio simile.

Qui di seguito riportiamo uno stralcio, egregiamente commentato da un autorevole scrittore, della biografia che uno dei quattro figli di Pujol compose in omaggio all’arte paterna. Il figlio, con una pietà filiale per nulla turbata dal dissacrante atto paterno, ha tracciato una piccola biografia dell’artista, con tale serietà da risultare commovente. Ci racconta le vicissitudini alle quali Pujol andò incontro per realizzare se stesso, per esempio l’abbandono del posto sicuro per raggiungere, attraverso l’incerto cammino dell’arte, la sua naturale vocazione, poi il successo a Parigi e infine la gloria. Attraverso le parole del figlio possiamo farci un’idea di come si svolgeva il numero dell’esimio: «Mio padre incominciava con una serie di piccoli suoni, ad ognuno dei quali dava un nome – Questa è una bambina, questa è la suocera, questo è un merciaio che strappa una pezza di mussolina, questo è un cannone, questo è il tuono... – Quindi scompariva per un attimo tra le quinte e ritornava con inserito, nei pantaloni, un tubo di gomma rosso. L’altra estremità la teneva tra le dita e vi applicava alla punta una sigaretta che accendeva. Con la contrazione dei suoi muscoli particolari egli la fumava e si vedeva la punta della sigaretta brillare quando veniva aspirata. Alla fine egli toglieva la cicca dall’estremità del tubo di caucciù ed espelleva il fumo che vi aveva fino a quel momento trattenuto. Poi applicava al tubo un piccolo flauto e suonava un paio di motivi come Le roy Dagobert e naturalmente Au clair de la lune, quindi, invitava il pubblico a cantare in coro insieme a lui». Come potete vedere da queste poche righe l’ammirazione per l’artista non ha confini nel cuore d’un figlio.

Dalla stessa biografia si viene a sapere che Joseph Pujol dette anche spettacoli privati per soli uomini. In queste occasioni si presentava in costume da bagno in modo che i miscredenti potessero verificare che non vi fossero trucchi. Una sera ebbe l’onore di annoverare tra i suoi uditori persino il re del Belgio in incognito. «So che siete stato di recente a Bruxelles – gli sussurrò Leopoldo II – e che avete avuto un gran successo. I miei sudditi vi adorano e si sono molto divertiti con voi. Io li ho invidiati, e siccome, nel mio regno, non posso muovermi in privato, eccomi qui a vedervi, in privato, a casa vostra».

La vita scorse felice per Joseph Pujol durante gli anni della belle époque fino al 1914. Dopo aver lavorato con Zidler, inaugurò un suo teatro, il Théâtre Pompadour, ma fu costretto a chiuderlo: la guerra purtroppo interruppe brutalmente la sua carriera. Scrive ancora il figlio biografo: «Dopo l’armistizio del ‘18, mio padre era così amareggiato dalle avversità e dai guai che non ebbe cuore di riprendere la carriera artistica», tornando ad impugnare la pala del fornaio, suo originario mestiere. Pujol morì nel 1945 quasi novantenne. «La facoltà di Medicina offrì venticinquemila franchi per poter esaminare il suo corpo dopo la morte – è sempre il figlio che scrive – mio padre pensando a quanto fosse utile per noi quella somma dette il suo consenso. Ma nessuno di noi firmò quell’autorizzazione che avrebbe aggiunto un’altra pena alla nostra pena di aver perso un uomo come lui. Morì in serenità. Nel corso della sua vita egli aveva dato il meglio di se stesso». (fn)

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