LA REPUBBLICA PARTENOPEA DEL «SOSPESO»
Quel che s’evince dalla prosa di Monelli – che io, sentendo la necessità di una condivisione diretta tra due persone, ho tradotto in forma di dialogo: perché un caffè non si dovrebbe mai bere da soli – è prima di tutto l’attitudine alla sacralità di un rituale, poetico sì, ma anche ossessivo: la ricerca di quel macinino; l’ammonimento sul tipo di chicco; l’avvertimento dell’acqua piovana; la liturgia del cucchiaino d’acqua fredda; la dottrina esasperata sull’ebollizione… tutti elementi che dipingono un quadretto di benevola stregoneria intorno a un (semplice in apparenza) bricco di caffè. Un rituale quotidiano che, se da una parte porta via del tempo a chi lo compie, dall’altra contribuisce alla solidarietà (non dimentichiamo questa parola, che fra poco ci tornerà utile) di un’intera popolazione. Ancora oggi in Etiopia, primitiva patria del caffè, la bevanda viene servita in continuazione, mattina e pomeriggio, ai passanti che sempre numerosi affollano i ritrovi comuni lungo le strade, dove una donna è intenta a riempire le tazzine con la miscela «sacra». Quella donna non è una qualunque distributrice di caffè, ma una delle prescelte «streghe di Smirne» che ha imparato l’arte della preparazione dai suoi predecessori.