LUCHINO, UNA MANIERA DI CONCEPIRE IL TEATRO
La platea era quasi buia. Le poltrone erano ricoperte da enormi teloni grigi che per la leggera ondulazione causata dai filari degli schienali, regalavano un’atmosfera lunare. Soltanto tra l’ottava e la decima fila, a destra del corridoio centrale, un ampio ripiano di legno, rivestito da un panno nero, ritaglio di una quinta in disuso, era adibito a tavolo di regia, sul quale un cono di luce molto corto, proiettato da una lampada elettrica, indicava che si stava provando. Il riverbero faceva intravedere una bottiglia d’acqua, un bicchiere e più in là due pacchetti di sigarette ancora sigillati. Sulle poltrone adiacenti, appena scoperte dalla tela ripiegata su se stessa, un cappotto gettato nella penombra. Lui, il grande regista, era seduto, spalle all’ipotetico pubblico, in ribalta al centro del palcoscenico. La sua voce roca era un suono che trasmetteva tranquillità. Parlava, dava ordini, suggerimenti, spiegazioni, tutto secondo una logica visiva che non s'era ancora palesata.