LA RIVOLTA DI TOMMASO ANIELLO A PALAZZO REALE. IMPRESA EROICA!
Dopo mezzo secolo, riecco il Masaniello di Armando Pugliese. A quasi un anno dalla scomparsa del regista napoletano, forse il più incompreso genio teatrale italiano del Novecento, Bruno Garofalo, che all’epoca curò la scenografia, rende omaggio all’amico con il quale collaborò per innumerevoli progetti, riallestendo lo spettacolo che lo rese celebre sin dal 1974, quando, con Elvio Porta, autore, e Silvia Polidori per i costumi (il tributo si estende anche a loro), diede vita alle imprevedibili gesta rivoltose del pescatore di piazza Mercato. Cinquantuno anni fa lo spettacolo debuttò a Napoli, proprio nello spiazzo antistante la basilica dedicata alla Madonna del Carmine, adiacente a quel monastero dove il 16 luglio 1647 Masaniello, sorpreso nel sonno, fu sparato da un colpo di archibugio, e la sua testa mozzata fu poi esposta nella piazza. Oggi la cornice è cambiata e alla vastità dello slargo abbascio ‘o Mercato s’è preferito il più raccolto Cortile d’Onore di Palazzo Reale, sgombro dagli echi entusiastici per i festeggiamenti del quarto tricolore azzurro che in questi giorni hanno riempito l’attiguo emiciclo del Plebiscito.
L’opera teatrale ripropone un episodio storico tra i più importanti in Europa: i moti di una ribellione popolare – che mai riuscì a essere vera rivoluzione – pensata e organizzata, che fu la prima dell’era moderna, quando ai venditori partenopei fu imposta una insostenibile oppressione tributaria da parte del governo spagnolo. Storia di tasse e di gabelle sul pesce e sulla frutta, sulla carne e sulla farina, introiti che il viceré raccoglieva per alimentare le casse del regno di Spagna. È storia del Seicento, ma è anche cronaca d’attualità: anche oggi non manca gente che si lamenta delle vessazioni fiscali invocando una utopistica rivoluzione come definitiva sanatoria. Se da una parte s’è avvertita la teatralità popolare degli eventi riproposti, dall’altra la sede naturale di un edificio reale, appartenuto a diverse dinastie di sovrani governanti, ha fatto da sfondo al più alto simbolo del potere: tanto del passato monarchico quanto del presente repubblicano, «anarchia sotto falso nome».
Nonostante sia trascorso qualche annetto, ho un ricordo ancora vivo di una edizione del lontano 1976, vista e rivista in un tendone allestito a Roma in viale Tiziano; la cornice dell’epoca non riuscì mai a far parte della vicenda, rimanendo totalmente estranea al contesto, mentre i grandi archi di Domenico Fontana e i finestroni dai quali anche il Duca d’Arcos (viceré spagnolo durante il periodo di Masaniello) si affacciò con la moglie Ana Francisca hanno restituito storicità al dramma, esaltandone i significati. Proprio lì, infatti, a Palazzo reale, il viceré fu assalito da una comitiva di rivoltosi che sfuggirono al controllo di Masaniello, e fu costretto a ritirarsi nel castello di Sant’Elmo. Lì, Masaniello con sua moglie Berardina fu ricevuto dai sovrani per un colloquio, quasi intimo, che poi si rivelò fatale. Purtroppo, come spesso accade per i progetti teatrali, anche per i migliori, l’iniziativa promossa da Rosario Imparato, produttore più che coraggioso, non ha incontrato il pieno sostegno delle autorità che hanno concesso alla ripresa del «Masaniello» di Pugliese soltanto poche repliche. Poche, ma buone certamente. Sì, vero. Ma dannatamente poche per un’impresa teatrale, di questi tempi, a dir poco, eroica!
Lo spettacolo merita perché è una regia anomala, ma perfetta. Ideata sulla falsa riga dell’ormai mitico «Orlando furioso» di Ronconi (1969), è studiata per la piazza e non per il palcoscenico: in un teatro, infatti, si potrebbe rappresentare soltanto agendo in una grande platea. Le scene si susseguono grazie allo spostamento di grosse pedane che scivolano in ogni direzione, trasportate dagli stessi attori (che affiancano i pochi macchinisti, anche loro travestiti da popolani) sul selciato, separandosi e unendosi, per creare i vari luoghi deputati: da una parte la casa di Masaniello, dall’altra la reggia, al centro la piazza che si trasforma all’uopo in mercato o nella strada maestra. I personaggi si alternano, si parlano da un lato all’altro del cortile, s’incontrano con intese e con minacce, con promesse e con sfottò: la napoletanità si traduce in suoni a volte strafottenti a volte drammatici. Garofalo giustamente, malgrado il teatro all’aperto, non cede all’utilizzo dei microfoni, chiedendo agli attori uno sforzo maggiore che serve far sentire la voce di un popolo sofferente, sempre in stato di necessità: d’altronde le sommosse non si fanno con i sussurri.
Tra le voci arrabbiate dei popolani e quelle scettiche, se non perfide, dei nobili, che fanno parte del dramma, si ravvisano anche quelle «di servizio», che con la stessa veemenza invitano il pubblico ad aprirsi per far passare un praticabile per la scena successiva. Oggi siamo disabituati, ma questo è teatro storico, teatro medievale, il teatro portato tra la gente, dove il pubblico, che segue in piedi lo spettacolo, diventa parte integrante della storia. Intorno a Masaniello, noi tutti, eravamo il popolo, il suo popolo. Qualcuno – maledetto! – con cellulare sfoderato sopra la testa del vicino a rubare immagini o a raccontare in diretta le imprese del pescivendolo Tommaso Aniello a chi non poteva vederle sul posto. Avanti con le gabelle sulle diaboliche app!
Ruben Rigillo, pur avvertendo il peso del testimone, ha superato con sicurezza la difficile prova nel ruolo del protagonista che già fu di suo padre Mariano che, con la sua arte, ha segnato la scena napoletana e non solo. Il personaggio di Ruben è un generalissimo del popolo assai vigoroso, bello, audace, dallo sguardo fiero, sempre pronto a proclamare l’onestà delle sue intenzioni, sia di fronte ai suoi pari che al cospetto dei nobili e del viceré. In piazza non ostenta mai la superbia del capo, ma con naturale fermezza afferma l’equilibrio di un’innata saggezza plebea e la determinazione di un popolo in attesa di giustizia.
Foto: Il popolo scaglia epiteti contro la nobiltà (© ???)