Ali Khan e Rita Hayworth |
LA FAVOLA BREVE TRA IL PRINCIPE E LA STELLA
C’era una volta una donna bellissima,
e c’era anche un principe giovane e ricchissimo…
Questa storia dovrebbe cominciare proprio così, come la più classica delle favole, ma per confermare che non si tratta di una fiaba di H. C. Andersen diciamo subito che vissero felici e contenti per poco più di due anni. Lei si chiamava Margarita ed era la figlia di un ballerino di flamenco, nata a Brooklyn dove papà Eduardo si trasferì dall’Andalusia per aprire una scuola di ballo e perché i teatri della vicina Broadway offrivano più opportunità di lavoro e quindi una maggiore stabilità economica, motivo per cui il signor Cansino lasciò la Spagna. Il principe si chiamava Ali Salman, ufficiale della Legione straniera, erede dell’imam Sultan Mahommed Shah, più noto come Aga Khan III, che – a differenza del futuro suocero iberico – non dovette mai affrontare il gravoso problema di gestire una precaria stabilità economica; piuttosto ebbe qualche grattacapo con l’instabilità del proprio peso, che aumentando ogni anno di più per far salire l’ago della bilancia e ricevere l’equivalente in oro e diamanti, si trovò a gestire una vecchiaia con un eccesso di trigliceridi.
I due giovani erano entrambi già sposati, lei addirittura due volte. Ma l’amore, si sa, è un’insana potenza irresistibile a cui spesso si cede volentieri. Se però ci si sofferma sul particolare – affatto secondario – che lei già si faceva chiamare non più Margarita Carmen Cansino, ma già Rita Hayworth, si comprendono meglio i motivi che spinsero Ali Khan a cedere al sentimento.
Rita già era stata l’appassionata Donna Sol di Sangue e arena (1941), l’affascinante Gilda (1946), la conturbante Lady from Shanghai (1947), e non s’era fatta mancare avventure sentimentali, anche se le furono attribuiti come flirt pure le amicizie più innocenti. Era il pedaggio da pagare per chi come lei era stata considerata, durante il periodo bellico, la donna più bella del mondo, osannata dalle truppe di soldati che le avevano affibbiato il soprannome di Bomba atomica, quando il devastante ordigno ancora non era stato sganciato.
La Hayworth con Orson Welles |
Ne nacque un ottimo prodotto, che però al botteghino non raggiunse nemmeno la metà degli incassi previsti. Harry Cohn, patron della Columbia, scaricò le responsabilità su Welles, il quale per le riprese aveva voluto cambiare il look della Bomba atomica: da rossa con lunga chioma suadente, la volle biondo platino con capelli tagliati e sguardo severo. Non era questa la Hayworth che Cohn aveva lanciato nel firmamento del cinema.
Immediatamente dopo lo scialbo successo del film, l’immagine sensuale dell’atomica rossa cominciò a sgretolarsi e gli agenti della Columbia si preoccuparono seriamente. Fu assoldata Elsa Maxwell – famosa giornalista dell’epoca dalla penna affilata come un rasoio, maga del pettegolezzo tra le star del cinema – per studiare un piano che facesse gridare ai rotocalchi di tutto il mondo il nome della Dea dell’amore, affinché ritrovasse nuovi echi di successo. Ma i piani, già stabiliti dalla casa produttrice, furono sconvolti da un evento inaspettato: Rita era nuovamente incinta. Harry Cohn andò su tutte le furie: aveva più volte inghiottito la delusione che le sue avances cadessero nel vuoto, ma non poteva sopportare un simile tradimento. La sua Gilda aspettava un bambino che sicuramente non era di Orson Welles, ma di un amore segreto che già da molti anni serpeggiava sulla bocca di tutti senza trovare mai alcuna conferma; un amore che accompagnò l’attrice per tutta la vita: Glenn Ford, il leggendario Johnny Farrell di Gilda.
Glenn Ford in «Gilda» |
Tra i due la scintilla scoppiò sul set, ma a causa dell’asfissiante gelosia di Harry Cohn, Glenn e Rita agirono sempre in perfetta clandestinità. Anche quando Harry fece mettere microfoni spie nei loro camerini. Eppure, dopo anni di incontri furtivi, ci scappò l’incidente, ma il nome di Glenn Ford rimase nascosto, anche perché Cohn, trovandosi incastrato in un grosso pasticcio che in parte aveva creato anche lui, non poteva assolutamente gridare lo scandalo ai quattro venti: c’era Elsa Maxwell dietro la sua porta che aspettava di pubblicare la partenza di un viaggio in Costa Azzurra della bellissima attrice, ma guai se avesse saputo che fosse incinta. Per una giornalista come lei questa, resa pubblica, sarebbe stata per la Columbia la notizia della fine della Hayworth. Pertanto Cohn si concentrò sulle soluzioni per salvare sia Rita che i futuri profitti, anziché sulla ricerca del «colpevole», un’azione che non avrebbe portato ad alcun incasso.
Rita fu fatta partire all’improvviso ed effettivamente raggiunse la Costa Azzurra in Francia, come stabilito, ma la Maxwell fu avvertita due giorni dopo, il tempo di portare l’attrice in una clinica, farla abortire e lasciarla libera in pasto alla regina del pettegolezzo. Questa, dalle sembianze tutt’altro che attraenti, venne a sapere che da quelle parti il giovane Khan, abile e spavaldo corteggiatore, nuotava in acque coniugali piuttosto torbide. Elsa contattò rapidamente i colleghi che ruotavano intorno al principe ed organizzò un incontro tra la bella diva e il ricco principe. La situazione, però, sfuggì di mano a lei e a tutti: da che avrebbe dovuto essere un’occasione per fare qualche scatto fotografico ed inviarlo in America con tanto di articolo «scandalistico», di Rita e di Ali si persero le tracce per tre giorni.
Un colpo di fulmine li rapì. Nessuno più seppe dove e come rintracciare la Hayworth. Il principe diede ordine ai suoi sudditi di non far trapelare nulla; e quando un indiano si mette a fare l’indiano! La stessa diva, infatti, confesserà anni più tardi: «Quando ci sposammo ero incinta già di due mesi». A causa di tanta passione, il 18 gennaio del ’49, allo Chateau de l’Horizon, la superba residenza vicino a Cannes di proprietà dell’imam, il principe Ali Khan organizzò una conferenza stampa per annunciare le nozze con la famosa attrice. «Dovrà essere un matrimonio celebrato secondo il rito della religione maomettana – precisò il principe un paio di mesi dopo – e anche in regola con le leggi del paese in cui ci sposeremo. La signorina Margarita non è maomettana e non credo che vorrà abbracciare la mia religione, ma gli eventuali figli dovranno farlo».
«Un matrimonio, un matrimonio vero», gridò entusiasta, dall’altra parte del pianeta, Elsa Maxwell, le cui prospettive migliori non andavano al di là dell’ennesimo flirt (magari costruito ad arte da fotografi e giornalisti). La notizia era ghiotta, da condire appena e da sfruttare appieno: quindi, sempre d’accordo con i marpioni della Columbia, sparse voce che l’attrice aveva già firmato un contratto per un nuovo lungometraggio e che quindi sarebbe rientrata subito in California. Ma non si diventa imam a caso: l’Aga Khan in persona, durante un’intervista rilasciata a un quotidiano inglese, approvando le nozze del figlio con l’attrice, in due parole smentì la Maxwell e la produzione.
L’attrice non si fece mai vedere durante gli annunci ufficiali. Ai giornalisti che la reclamavano, il principe diceva che era ammalata d’influenza. E la Maxwell non perse occasione per malignare: in verità era ben cosciente di aver trovato un muro invalicabile dove persino i suoi informatori non avrebbero potuto carpire alcuna esclusiva. Non le restò che provocare il padre di Rita, rimasto a New York; ma anche lui non le diede grandi soddisfazioni: «Chiariamo: per conto mio dovrò lavorare come prima. Per me va bene, purché mia figlia possa essere felice. Un principe indiano favolosamente ricco, come genero, non sarà meno piacevole di quell’intelligente ragazzo di Orson Welles».
Già, Orson Welles! Perfino lui era propenso alle nozze di sua moglie con il principe, se non fosse che Rita era ancora sua moglie a tutti gli effetti. Sì, è vero, avevano già avviato le pratiche per la separazione, ma queste cose burocratiche, si sa, vanno sempre per le lunghe. E anche il principe Ali Khan era nelle stesse identiche condizioni con la consorte Joan Guinness, figlia di un lord inglese, dalla quale però viveva separato già da tre anni. Tuttavia sussistevano altre due differenze determinanti: Ali era figlio dell’imam (il capo religioso di venti milioni di musulmani) mentre Rita non era figlia del papa; Ali era ultramiliardario mentre Rita era soltanto moderatamente ricca. Infatti il principe in meno di sei settimane riuscì ad ottenere una straordinaria sentenza di divorzio in cui era chiaro che la signora Guinness rinunciava agli alimenti e ai figli che furono affidati al padre. L’8 aprile Ali avrebbe potuto già comunicare la data delle nozze ma preferì una certa cautela perché dall’altra parte gli avvocati non riuscivano a mantenere lo stesso ritmo procedurale. Chissà perché! Ali e Rita annunciarono che il loro matrimonio si sarebbe celebrato a metà maggio, senza specificare un giorno preciso. «Allo Chateau de l’Horizon», disse lei sapendo che l’Aga Khan aveva già destinato la sfarzosa residenza di Cap d’Antibes alla giovane coppia.
Un intralcio doloroso, anch’esso legato in qualche modo alla sfera sentimentale, capitò pure sulla strada di Ali, rischiando di far slittare ulteriormente le nozze. Occorre, a questo proposito, ricordare le passioni sportive del principe e il suo attaccamento a questo mondo: sci e cavalli sopra tutto il resto, discipline d’élite e aristocratiche che lo vedevano spesso protagonista, con l'amico Gianni Agnelli, a Cortina o agli ippodromi inglesi (vinse oltre cento concorsi ippici). Inoltre il principe era nato a Torino nel 1911 da madre italiana (Cleope Magliano, una ballerina) e, proprio in quella città, nell’immediato dopoguerra, c’era una squadra di calcio amata da tutta Italia (anche quella meno sportiva), e stimata da tutto il mondo; una formazione che soltanto i tifosi dell’ultimo ventennio (forse troppo distanti dall’autentico valore che il calcio espresse in quel periodo) probabilmente ne ignorano l’assoluta invincibilità morale più che agonistica. Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ferraris II erano gli undici moschettieri al servizio di un’altra Italia pronta a rinascere, unita (quella sì, davvero unita!), pronta a lasciarsi alle spalle, grazie alle loro imprese, i dolori e i sacrifici della guerra; di un altro calcio giocato (non solo con i piedi), sentito (non soltanto alla radio), un calcio educato ed eroico quello del quale fu simbolo il Grande Torino di Valentino Mazzola. Vinsero cinque scudetti consecutivi dal 1942 (quindi lo stop imposto dal conflitto mondiale) al 1949. Fu la squadra che riportò l’entusiasmo patriottico dopo anni di stenti, la squadra che se dalla guerra non fosse stata sospesa avrebbe vinto il campionato per l’intero decennio. Non si poteva non sentirsi galvanizzati da quel Grande Torino. Non si poteva non amare l’unica formazione della storia che per dieci undicesimi rappresentò la nazionale italiana. Da Venezia a Genova, da Milano a Palermo tutti ascoltavano alla radio le imprese eroiche dei loro idoli. E quando, all’alba del 4 maggio 1949, di ritorno da una trasferta a Lisbona, l’aereo che li riportava in patria si schiantò sulla collina di Superga, fu una tragedia infinita. Tutta Torino, tutto il mondo sportivo, tutta Europa ne fu scossa. Indro Montanelli scrisse il 6 maggio, in una memorabile terza pagina, di aver visto singhiozzare un’infinità di ragazzi per le vie di Milano, di averli visti a gruppi leggere il giornale stringendo tra le mani le figurine stropicciate dei loro moschettieri in casacca granata.
La sciagura di Superga richiamò l’attenzione di tutti: cisalpini e transalpini. Forse soltanto Margarita Carmen, cresciuta tra l’arte coreutica a Broadway e quella del grande schermo a Hollywood, restò interdetta per l’imponente eco che la tragedia suscitò. Probabilmente un pensiero – dalle contorte radici che affondano nelle credenze popolari andaluse – cominciò a balenare nella sua mente: questo matrimonio non s’ha da fare! Ma il frutto di quella passione, che prese poi il nome di Yasmine, si fece sentire proprio in quell’istante e ciecamente lo discacciò. Potrebbe essere stato questo il motivo per cui all’improvviso, tra lo scetticismo dei cronisti ancora scioccati dalla tragedia sportiva, si venne a sapere che appena pochi giorni dopo (il 27 maggio) «colei che è stata designata come la più bella donna del mondo – raccontò Orio Vergani, inviato davvero speciale del Corriere della Sera – la Venere del Novecento, la mascotte dei soldati americani nella guerra mondiale, la Gilda che ha rappresentato, in un certo modo, una confortante bandiera di bellezza nelle ore di riposo degli eserciti affaticati ed insanguinati, dirà di sì al sindaco di Vallauris» che le chiederà ufficialmente «Voulez-vous, mademoiselle, Margarita Carmen Cansino, unirvi in matrimonio al qui presente principe Ali Khan?». Evviva!
Intanto, già il giorno precedente alla cerimonia, il nostro cronista d’eccezione raggiunse la Costa e si spinse alle soglie dell’inviolabile e superba residenza dell’Aga Khan, che decine di inservienti silenziosissimi stavano addobbando a festa: valanghe di fiori ovunque negli interni e nei giardini, nelle fontane e tra le statue; lungo i viali piante tropicali seguivano il declino verso il mare, e laggiù una darsena e il porticciolo dov’erano ancorati i grandi motoscafi di Ali. «Io ho pensato – onore alla penna di Orio Vergani – che la miglior tattica fosse quella di considerare lo Chateau de l’Horizon come casa mia e di entrarvi pacificamente, leggendo il giornale e fermandomi, anzi, ogni tre o quattro passi, come se leggessi qualche notizia estremamente interessante…» Leggere solitariamente un quotidiano e far finta di porgere la propria attenzione alla carta stampata piuttosto che alle magnificenze esibite dall’imam per le nozze di suo figlio – diciamolo – potrebbe pur essere una delicatezza nei confronti di quei padroni di casa soliti nel manipolare rubini e smeraldi come noi trattiamo i ceci. Infatti, continua Vergani: «I doni arrivano a Rita e ad Ali con un fasto e un’abbondanza di cui essi non hanno certamente bisogno, ma che sono, in ogni modo, una cara testimonianza di amicizia... un sacchetto di tela della misura d’un normale sacchetto di caramelle, pieno di pietre preziose, sciolte, messe lì dentro con la bonarietà con cui, per uno scherzo, si metterebbero delle manciate di grossa ghiaia; e Ali ha deposto con un velo di amabile noncuranza il sacchetto su un mobile, dove è rimasto abbandonato per quasi tutto il giorno».
Eccoci all’indomani. Perdonino gli amanti delle fiabe se il cronista Vergani ha attinto da queste per la descrizione che segue. «Trionfi simili si vedono solo nelle riviste di grande spettacolo… eppure non era quella che vedevamo una finzione scenica; era una parte viva della vita. Vero era il cielo azzurro, veri i palmeti, veri i cortei d’automobili, veri erano i maragià, vere le dame indiane vestite come nelle antiche miniature, veri i misteriosi personaggi orientali vestiti con neri e bianchi mantelli come gli sceicchi dei film di Rodolfo Valentino, vere le bellissime europee arrivate, con carni giovani o nascostamente antiche, profumate di squisite essenze, dalle più belle ville del mondo; veri i pittori celebri scesi dai loro studi di Parigi, vere le principesse e i principi, verissime le infinite canestre d’orchidee, verissimi i grandi fasci di fiori galleggianti sul mare, vero lo sposo, bruno e disinvolto che parla cinque lingue e persino il piemontese; vera la sposa che, senza essere forse proprio la più bella donna del mondo, è certamente un perfettissimo campionario di quegli attributi di grazia… Ali è arrivato due minuti prima delle 11 sulla sua macchina americana, targata GB 3434 TT8X. Guidava lui, vestito con giacchetta nera e garofano all’occhiello… E adesso dovrei dire come è la bellezza di Rita Hayworth, vista, come l’abbiamo vista al matrimonio e poi al ricevimento, a pochi centimetri di distanza e non sullo schermo del cinematografo… Rita sa, e non lo nasconde, di essere coronata, prima che dalla corona dei Khan, da quella di una straordinaria bellezza… Quella di Rita è la bellezza di una magnifica domenica di primavera. Se dovessimo paragonarla a un fiore, più che alla gardenia o alla rosa o all’orchidea, la paragoneremmo a una bellissima ortensia… Oggi era la giornata del sorriso e Rita doveva sorridere infaticabilmente a tutti… nel mio diario segreto scriverò che Rita Hayworth ha dovuto sorridere anche al sottoscritto…».
Il giorno seguente furono celebrate, alla chetichella (e non solo per la stanchezza dei precedenti bagordi), le nozze musulmane, ma la notizia trapelò e raggiunse subito il Vaticano: e se l’imam fu ben lieto di avere come nuora la donna più bella del mondo, il papa non gradì che la donna più bella della cristianità esibisse un planetario cattivo esempio. Anche Pio XII, nonostante non abbia mai condannato ufficialmente le atrocità ordinate da Hitler, nei confronti della Hayworth si dimostrò più che intransigente: vada per la bomba atomica in bikini, vada per il guanto nero sfilato con sensualità, vada per gli ancheggiamenti lascivi dedicati all’Amado mio, ma sposa a un musulmano no, mai! Dichiarò «non esistente» quel legame, in quanto la diva, battezzata, non aveva celebrato le nozze secondo il rito cattolico. «I due per la Chiesa – è scritto in una celebre nota della Santa Sede – vivono in stato di pubblico concubinaggio. Il fatto che essa si sia sposata secondo il rito di quella religione la fa incorrere fin d’ora nella scomunica». E scomunica fu.
Le conseguenze della iattura (pardon, della bolla papale), che solo un napoletano munito di cornetto contro il malocchio avrebbe potuto immaginare, furono funeste. L’Aga Khan, osservando il comportamento senza freni del figlio Ali, giocatore d’azzardo oltre che amante della vita lussuosa, lo spedì in Africa, riducendogli fortemente l’agio economico. Rita lo seguì per qualche tempo, ma la quotidianità di Zanzibar non era di suo gradimento e partì, lasciandolo solo. Quando si rividero lei capì che lui l’aveva tradita e inevitabilmente il rapporto si guastò.
Il matrimonio, che terminò nel 1953, creò a Rita una sorta di ostracismo in patria; Elsa Maxwell, offesa per non essere stata invitata alla cerimonia, le tolse il saluto e con essa la stampa tutta si raffreddò nei suoi confronti; la Federazione delle donne americane decise di boicottare i suoi film; insomma, cominciò il vero declino professionale che naturalmente non vogliamo raccontare per ricordare Rita Hayworth al meglio del suo splendore. Come compete soltanto a una stella, e non solo del cinema.
E mentre Ali veniva a sapere di aver perso il titolo di quarto Aga Khan (passato direttamente a suo figlio), un quarto marito aveva già bussato alla porta di Rita. (fn)