28 gennaio 2024

«Maestro», di Bradley Cooper (2023)

Bradley Cooper nel ruolo di Leonard Bernstein

MUSICA E VITALITÀ DI BERNSTEIN RIVIVONO NEL FILM DI COOPER

In attesa degli Oscar, nessun riconoscimento ai Golden Globes

Maestro è stato presentato all’ultimo Festival di Venezia riscuotendo molti apprezzamenti, ma senza racimolare alcun premio. Ora, il film di Bradley Cooper dedicato a Leonard Bernstein, dopo aver bruciato quattro candidature ai Golden Globes, spera di recuperare agli Oscar (7 candidature, che non son poche). L’augurio è che vinca, vinca, vinca, in onore del più straordinario Maestro della musica contemporanea: l’unico, insieme con Šostakovič, ad aver portato le forme musicali considerate leggere a livello della musica colta. Questa speranza di vittoria, tuttavia, molto probabilmente rimarrà inascoltata. Sappiamo benissimo che quel che oggi spinge una pellicola alla conquista dei più ambiti riconoscimenti internazionali dipende da altri fattori, più economici che artistici, e non solo.

27 gennaio 2024

«In ogni vita la pioggia deve cadere», di Fabio Grossi

Leo Gullotta

Roma, Teatro Parioli, 26 gennaio 2024

QUANDO NELLA COPPIA PREVALE SEMPRE L’AMORE

Nella commedia di Fabio Grossi (In ogni vita la pioggia deve cadere) si parla d’amore di coppia, e la coppia in questione è formata da Piercarlo e Fabio, detto Papi. Il primo è interpretato dall’autore e regista, il secondo da Leo Gullotta: due personaggi che potrebbero rispecchiare sommariamente il legame che da anni unisce i due protagonisti anche fuori dalla scena. Piercarlo e Fabio, però, nella finzione teatrale, vivono un epilogo assai particolare e doloroso. Grossi probabilmente si è posto – o, meglio, se lo pose quando ancora alcun status giuridico non dava l’opportunità di sottoscrivere pubblicamente un vincolo civile per coppie dello stesso sesso – il problema ereditario in caso di morte di uno dei due. Un cavillo burocratico oggi superato. Piercarlo, quindi, più giovane e condannato da un tumore ormai incurabile, predispone a favore di Fabio un testamento inattaccabile da parte di parenti che post mortem potrebbero essere colpiti da improvvisa commiserazione per il cugino omosessuale a cui, dopo la rivelazione, non avevano mai più rivolto la parola. Così, mentre Piercarlo si preoccupa concretamente del lascito, Papi, alla notizia che gli confessa il compagno, si dispera trainato da un forte e sincero sentimento d’amore.

26 gennaio 2024

«La bambola spezzata» di Emilia De Rienzo

Irma Ciaramella (in piedi) e Alessandra Ferro

Roma, Teatro Sophia
25 gennaio 2024

IL CUORE DI EVA FRANTUMATO DA UNA MADRE DEDITA ALL’EUGENETICA

La regia di Gianni De Feo si concentra sullo stile grottesco per affrontare il delirio delle follie naziste

Il canto suadente di Max Raabe accoglie gli spettatori accompagnandoli dolcemente nell’atmosfera di quegli anni Trenta che, se nel mondo segnarono il periodo più felice ed elegante del Novecento, in Germania furono il prologo dell’inferno. Infatti, in scena un maître de salle sembra attendere tranquillamente gli ospiti per introdurli in un dramma che sta per scoppiare. Lo si avverte: ce ne accorgiamo dall’inquietudine di una donna vestita a lutto che aprirà il sipario sulla sua vita ora d’attrice, ma prima di figlia.

Il prologo canoro è importante, come in tutte le regie di Gianni De Feo, esperto musicologo, perché la musica, affidata poi alla perizia di Adriano D’Amico, è la protagonista di quest’allestimento, diventando la voce costante di quel personaggio immaginario che De Feo ha ritagliato per sé e del quale soltanto in un paio di situazioni ne ascoltiamo le reali parole. Ed è proprio la musica che introduce dolcemente l’inferno di Eva (Irma Ciaramella) cominciato nell’estate del 1939 quando a Berlino i nazisti stavano già «affilando i coltelli». All’epoca Eva aveva sei anni e fu all’improvviso abbandonata dalla madre (Alessandra Ferro) che, spinta da uno scellerato senso patriottico, corse al servizio della corte di Hitler. Il padre, un cantante, morì poco dopo in guerra; e lei, rimasta praticamente orfana, allevata da una zia anaffettiva, di quel periodo ha conservato una bambola, dono di una madre che soltanto allora avrebbe potuto essere una mamma.

Il testo di Emilia De Rienzo – forte e intenso ma anche con qualche macchia eccessivamente didascalica – gioca proprio sulla differenza dell’accezione sentimentale che contiene uno solo dei due vocaboli, sinonimi soltanto nel lessico di un dizionario. Le due donne si ritrovano l’una di fronte all’altra nell’autunno del 1978. Eva (come la Braun?), consapevole di addentrarsi in un labirinto di follie, sceglie a fatica la strada dolorosa della verità, per capire cosa spinse la madre a preferire il fanatismo nazista sacrificando la gioia della famiglia. Il dramma vien fuori chiaro quando la genitrice reclama il sostantivo più affettuoso, che Eva però non riesce a pronunciare.

De Feo per portare avanti in maniera credibile il dialogo, paziente e sofferente da una parte e delirante e implacabile dall’altro, affida allo stile grottesco soprattutto l’espressionismo della madre spietata, imbalsamata in un trono che ha il sapore di una bara che contiene il fantasma di una trascorsa follia. Caratteristica, questa, che consente ad Alessandra Ferro – viso audacemente truccato, con piumaggio a cresta di gallo sul capo, e fasciata da una vestaglia con ancora i segni di una croce uncinata – di farneticare in modo esemplare tra i ricordi degli esperimenti di eugenetica sui bambini malati e quelli di un marito e di una figlia sotterrati nell’oblio. Quando però la visione della bambola le ravviva la memoria si avverte l’anomala mancanza di un cambio di registro nella recitazione.

Più contenuta nel dolore di figlia abbandonata la Eva interpretata dalla Ciaramella, che cedendo raramente alla disperazione emotiva, predilige la razionalità dell’attrice diderottiana per costruire il suo personaggio alla ricerca della spietata verità che la porterà a equipararsi proprio con quella bambola spezzata nel cuore dalla quale è incapace di separarsi. (fn)
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La bambola spezzata di Emilia De Rienzo, con Irma Ciaramella (Eva), Alessandra Ferro (La Madre) e Gianni De Feo (Il Cantante e non solo). Musica Adriano D’Amico. Regia, Gianni De Feo

Foto: (© Manuela Giusto)

Pubblicato anche su Quarta Parete il 26/01/24

25 gennaio 2024

«La prima indagine di Montalbano» di Andrea Camilleri


Roma, Teatro Sette
24 gennaio 2024

VENTURIELLO ESALTA I COLORI DELLA LINGUA DEL POPOLARE COMMISSARIO

Il commissario più famoso d’Italia, dopo i successi televisivi e dopo i clamori dell’audiolibro, si rifugia in palcoscenico. E ne sceglie uno piccolo, il Teatro Sette, quasi nascosto, in una zona poco teatrale della Capitale, per offrire il meglio di sé: il suo linguaggio, quello del suo autore, naturalmente. Andrea Camilleri. Sono queste le belle occasioni in cui si benedice il confortante calore teatrale che scalda l’intelletto e, di conseguenza, si maledice la spazzatura che la televisione ci propina offrendo prodotti dozzinali per ogni palato.

A teatro Massimo Venturiello restituisce a Montalbano e al suo mondo quella raffinatezza popolare che soltanto la buona letteratura riesce a costruire quando a scriverla è un autore illuminato. L’idioma che si usa, la costruzione delle frasi, la scelta delle parole creano l’autenticità del territorio dove i «montalbanesi tutti» prendono vita grazie agli intercalari, alle pause, agli ammiccamenti che l’attore sopraffino plasma per ciascuno di loro.

23 gennaio 2024

«Falstaff a Windsor» da William Shakespeare

Roma, Teatro Quirino
23 gennaio 2024

L’AUSTERITÀ DELLA SCENA GHIACCIA LA COMICITÀ DELLE «COMARI»

Alessandro Benvenuti è Sir John Falstaff riscritto da Ugo Chiti

Nell’immagine che riempie la brochure che il teatro Quirino distribuisce nel foyer, si nota Alessandro Benvenuti, bianco per antico pelo, con il pancione posticcio di Sir John Falstaff, che sta per afferrare un mappamondo leggiadro (simile a quello del dittatore di Chaplin, per intenderci). Quel che nella foto risalta, però, al di là della presa del globo, è la forma geometrica del tondo, un cerchio perfetto, o una sfera, una linea morbida che nasce e muore da uno stesso punto, e soprattutto la leggerezza dell’oggetto. La bella scena ideata da Sergio Mariotti per Falstaff a Windsor, con la regia di Ugo Chiti, invece offre una visione d’insieme di sole rette perpendicolari: verticali, determinate da cinque coppie di quinte laterali rigide, e orizzontali, segnate da tre livelli che dal proscenio crescono gradualmente verso il fondo.

Riflessione al termine di una serata imbarazzante

Paolo Villaggio in «Fantozzi» (1975)

 IN MEMORIA DI UNA «CAGATA PAZZESCA»

Il libero mercato non s’addice al teatro: così i palcoscenici off rischiano il disonore

Succede! Sì, succede di assistere a spettacoli davvero indegni. È accaduto in passato e continuerà ad accadere. Spettacoli che non hanno senso. Spettacoli nati dalla penna di autori incomprensibili, dati in pasto a registi vegani (quelli che non sanno distinguere la carne dal pesce), i quali affidano il «bel canto» ad attori che ululano insensatamente. Tuttavia ho notato che gli attori, sempre più spesso, sono i meno responsabili di questi soventi supplizi. In verità, però, dopo oltre un anno di recensioni ufficiali per Quarta parete (che grazie ad Andrea Cavazzini offre la possibilità di esprimerci liberamente) e decenni di frequentazione tra platee e palcoscenici, leggendo tra gli appunti personali alcuni giudizi più riservati e mettendoli a paragone con quelli del passato, si scopre una strana anomalia che segue l’andazzo generico del malessere del Paese. La corsa al denaro.

22 gennaio 2024

«Processo Galileo» di Angela Demattè e Fabrizio Sinisi

Roma, Teatro Vascello
21 gennaio 2024

L’ETERNITÀ DEL GENIO DI GALILEO IN UNA FANTASTICA INTERPRETAZIONE DI LUCA LAZZARESCHI

«Occorre intendere il linguaggio per conoscere a fondo un argomento». Forse è proprio questa la chiave di lettura per capire la devastante forza dell’ignoranza che per secoli ha oscurato il mondo, e che continua ancora a incombere sul presente e a minacciare il futuro. L’insegnamento cattolico e apostolico, impostato su un linguaggio esclusivamente clericale, cioè senza spiragli, fu l’arma più diabolica per tenere in pugno l’intera umanità. Oggi questo stesso principio suona come un avvertimento che ci arriva da lontano. Fu Galileo Galilei, infatti, a rispolverare nei primi anni del Seicento questa dottrina di sopravvivenza che Socrate, Aristotele e Pitagora divulgarono, molti secoli prima, alla civiltà nascente come luce per l’intelletto. Galileo ebbe il coraggio di restituire luminosità al libero pensiero del mondo occidentale annebbiato dal clima repressivo e censorio di Santa Romana Chiesa che aveva appena condannato al rogo Giordano Bruno: sacrificio di una mente eccelsa che probabilmente indicò a Galileo che era giunto il tempo in cui nessuno più avrebbe potuto riportare l’intelletto umano nell’oscurità del dogma.

21 gennaio 2024

Stabile di Roma: storia di una votazione

Luca De Fusco

DE FUSCO DIRETTORE PER CINQUE ANNI

La nomina, proclamata in un’atmosfera da pochade, potrebbe far slittare la promessa della gestione del Teatro Valle

Luca De Fusco è il nuovo direttore del Teatro Stabile di Roma. La decisione non è stata raggiunta all’unanimità dal Consiglio di amministrazione. I cinque membri, che dal 22 dicembre scorso si sono concentrati su 42 nominativi, riducendoli poi a una manciata di reali possibilità elettive, hanno premiato le capacità organizzative dell’attuale direttore artistico dello Stabile catanese, già numero uno a Napoli e in Veneto. La tensione dei giorni scorsi non s’è sciolta. Anzi, è montata talmente tanto che addirittura c’è chi da sinistra grida al golpe della destra. La politica invade il teatro più che mai. La nomina è stata annunciata da un Consiglio spaccato e incompleto. Il presidente Francesco Siciliano e Natalia Di Iorio, entrambi sostenitori, per diversi motivi, della parte comunale, infatti, hanno abbandonato la seduta, prima dell’ufficializzazione della notizia. Per protesta? Per dissidio? Per capriccio? Per dispetto? O forse, a quanto pare, proprio per far scoppiare il caso: perché resosi conto di essere in minoranza.

18 gennaio 2024

«Metti, una sera a cena» di Giuseppe Patroni Griffi (presentazione)


Due parole confidenziali
in attesa del debutto
il 19 gennaio

INTORNO AL TAVOLO DI LUCHINO VISCONTI

Il solito triangolo: moglie, marito amante. Il vecchio dramma pirandelliano è ripassato al setaccio esistenzialista di Sartre

All’Off/Off Theatre, dal 19 al 28 gennaio, torna in palcoscenico, dopo 21 anni dall’ultimo allestimento, Metti, una sera a cena: il testo che più di tutti ha reso famoso il suo autore, Giuseppe Patroni Griffi, anche grazie a una celebre trascrizione cinematografica. Protagonista dell’odierna impresa è Kaspar Capparoni che ne firma la regia, oltre a ricoprire (per la seconda volta) il ruolo di Max che fu, nella prima edizione, di Romolo Valli. Con lui ci saranno Laura Lattuada (Nina), Clara Galante (Giovanna), Carlo Caprioli (Michele) ed Edoardo Purgatori (Ric). Scene, Alessandro Chiti.

Il seme di Metti, una sera a cena germoglia, nella mente di Giuseppe Patroni Griffi, dopo una serie di eventi amichevoli e teatrali, che vide protagonista l’intera schiera degli amici di Peppino: Romolo Valli, Giorgio De Lullo, ma anche Nora Ricci e soprattutto Luchino Visconti. Il tavolo, posto al centro della scena, è il fertile terreno di una vicenda che coinvolge personaggi che lì hanno piantato le loro radici e non riescono più ad allontanarsi, finanche nelle situazioni più difficili. La tavola – non è un caso che nelle didascalie sia sempre nominata al femminile – diventa donna quando è apparecchiata (cioè, ingioiellata), pronta per essere usata per l’atto «libidinoso» del pasto, e rappresenta l’Eden – dove tutto è permesso – delle complicità tacite e solidali. Intorno al desco sono coinvolte quattro (alla fine saranno cinque) persone che evocano un incontro orgiastico all’insegna della parola e dell’amicizia, nel quale tutti sono invitati a partecipare al convivio. L’unica imprescindibile regola, infatti, è che nessuno abbandoni la tavola; chi lo fa è un traditore.

17 gennaio 2024

«Fausto» di Alessandro Casiglia


Roma, Teatro Trastevere
16 gennaio 2024

L’ACCUSA ALLA LIBERTÀ CHE GENERA SUDDITANZA

La rappresentazione di Fausto (spettacolo scritto, diretto e interpretato da Alessandro Casiglia) è l’esempio più lampante di quanto sia ingrato ricoprire il doppio ruolo di regista e di attore. Sempre più spesso mi rendo conto che le giovani generazioni di teatranti sottovalutino questa impervia difficoltà. Vedere lo spettacolo con l’occhio dello spettatore non è lo stesso che sorvegliare l’allestimento con lo sguardo della propria immaginazione. Ci vuole una grande sapienza teatrale che i più giovani non possono aver maturata: non per incapacità (ci mancherebbe!), ma per ovvia scarsa esperienza.

16 gennaio 2024

«Il terzo tempo» di Lidia Ravera


Roma, Teatro Parioli
15 gennaio 2024

LIBRI E CAREZZE SONO IL MIGLIOR BAGAGLIO PER AFFRONTARE LA VOLATA FINALE

Emanuela Giordano ed Enzo Caro leggono il romanzo di Lidia Ravera per la rassegna «Lingua madre» al Parioli

Lidia Ravera è in sala. La platea è molto affollata. Per un appuntamento teatrale del lunedì l’affluenza è eccezionale. In cartellone è annunciata una lettura a quattro voci del romanzo Il terzo tempo, pubblicato da Bompiani nel 2017. Piero Maccarinelli, padrone di casa, prima di cominciare, tiene a precisare che gli attori che saliranno sul palcoscenico per dar vita alla Rassegna sulla drammaturgia italiana che si terrà, ogni lunedì fino al 26 febbraio, partecipano all’iniziativa esclusivamente a titolo gratuito. Certamente molti sono amici: non è nemmeno il caso di sottolinearlo, perché ormai da tempo il teatro sopravvive grazie alla spontaneità delle amicizie e alla generosità degli addetti ai lavori, critici compresi. Siamo tutti nella stessa barca per amore di un’arte che ci ha conquistati in tenera età e che all’età più tenera ci tiene ancora avvinghiati; malgrado la Ravera ci ricordi che ormai il terzo tempo è lì che ci aspetta tutti al varco.

15 gennaio 2024

In morte di un poeta napoletano


di Francesco Esposito
in collaborazione con
F. Nicolini

Ricordo di Enzo Moscato, il più pasoliniano degli scrittori partenopei

𝑃𝑒’ 𝑐𝑜𝑝𝑝’ ‘𝑒 𝑙𝑜𝑔𝑔𝑒, 𝑝𝑒’ 𝑠𝑜𝑡𝑡’ ‘𝑒 𝑝𝑎𝑛𝑛𝑒 𝑠𝑡𝑖𝑠𝑒,
𝑚𝑜 ℎ𝑎𝑛𝑛’ ‘𝑎 𝑣𝑢𝑙𝑎̀ 𝑠𝑡𝑖 𝑐𝑐𝑎𝑟𝑡’ ‘𝑒 𝑚𝑢𝑠𝑖𝑐𝑎,
𝑡𝑢𝑡𝑡𝑒 𝑠𝑡𝑖 𝑛𝑖𝑟𝑒 𝑎𝑐𝑐𝑜𝑟𝑑’ ‘𝑒 𝑐𝑢𝑛𝑐𝑒𝑟𝑡𝑖𝑛𝑜...

Enzo Moscato ci ha lasciato. Se n’è andato senza colpi di scena, senza alcun fracasso, in punta di piedi, con la solitaria discrezione nota a chi lo conosceva; quella che lo ha sempre contraddistinto: la stessa che lo ha mantenuto fuori dal coro. Lui, colto poeta solista, è stato sin da subito associato ad Annibale Ruccello e Manlio Santanelli, esponente di quel fenomeno autorale che la critica battezzò identificandolo come la «Nuova drammaturgia post Eduardo». Quasi contemporaneamente i tre iniziavano a scrivere di teatro mentre il vivente monumento eduardiano continuava a intimidire, anche inconsciamente, ormai da decenni. Il suo teatro, il suo modo di far teatro, il suo successo planetario quasi metteva soggezione ai giovani che si apprestavano a scrivere per il palcoscenico. 

«Io & tu» di Lauren Gunderson

Roma, Spazio Diamante
14 gennaio 2024

QUANDO «LA GENTILEZZA È FAKE» MA LA POESIA È VITA

Io & Tu, titolo originale I and You, è un dialogo avvincente tra due animi (che non sono anime) che s’incontrano quasi per caso, senza conoscersi; anzi, si vogliono, forse addirittura si devono, incontrare per stabilire un primo punto di contatto sensibile che soltanto alla fine li porterà a un più concreto sodalizio. Nella scrittura dell’americana Lauren Gunderson c’è il modo di capire e di riflettere che Io e Tu sono lei e l’altro, più che lui e l’altra. Ce lo indica bene Gianluca Merolli, raffinato regista di quest’allestimento, che presenta al pubblico che ancora entra in sala, la visione di una ragazza sola che per lungo tempo si aggira imperturbabile nella claustrofobia di una stanza, nella quale, però, in apparenza, si sente perfettamente a suo agio. Gioca con una tartaruga di pelouche, ascolta musica, canta spensierata e, come tutti i ragazzi di oggi, mostra una disinvolta manualità con il cellulare e le sue applicazioni, ma conosce anche l’incantesimo delle ombre riflesse sulle pareti: con le mani intrecciate, infatti, davanti alla lanterna magica, proietta le immagini del suo cartoon personale dove un paio d’ali vorrebbe spiccare il volo.

13 gennaio 2024

«Sarò diverso» di Serena Maffia

Roma, Teatro Altrove
12 gennaio 2024

IL VISIONARIO SOGNA IL GIOVANE LEMURI (MA FORSE NO)

In locandina si legge il nome di Vittorio Centrone e, a coloro che di rock se ne intendono poco, non viene nemmeno il sospetto che si possa trattare di una star della musica. Anche la memoria tradisce e il collegamento con il suo alter ego, Lemuri il Visionario, coglie impreparati molti spettatori habitué dell’Altrove, ma non i suoi fan che pure hanno affollato il teatro. Il Visionario è la voce maschile di tanti successi internazionali. Navigando sul web si viene a sapere che ha venduto qualche milione di copie delle sue interpretazioni canore. Il primo dell’elenco è il brano dance Dragostea din tei, del 2004. Forse il titolo a molti dice poco, ma basta cercarlo su youtube e già dalle prime note lo si riconosce come uno di quei tormentoni ascoltati alla radio migliaia di volte. Insomma, Vittorio ha un passato musicale di tutto rispetto, associato alla sua abilità vocale: «C’è qualcosa di magico nella tua voce», si dirà durante lo spettacolo. Ed è vero.

12 gennaio 2024

«Il profeta scorretto» di Riccardo Leonelli

Roma, Teatro Belli
12 gennaio 2024

IL POLITICALLY CORRECT SORPRENDE ANCHE IL SIGNOR G.

Due ore piene, senza intervallo, in compagnia di Giorgio Gaber. Anzi due! Sì, ce n’è anche uno con la barba. È lo spettacolo che ha ideato, scritto e realizzato Riccardo Leonelli. È in scena, da ieri, fino a domenica 14 al Belli. Chi ama il repertorio del teatro canzone non dovrebbe perderlo. Ai più giovani, che forse conoscono poco Gaber, mi permetto di consigliarlo vivamente. Per i sostenitori del politicamente corretto, be’, sarebbe una buona occasione per redimersi e godersi due ore di sana libertà. A tal proposito, mi piace ricordare che poco più di un anno fa vidi un altro spettacolo sul cantautore milanese e così, guarda caso, titolai la recensione: «Quando Gaber e Luporini erano liberi di essere politicamente scorretti». C’era una volta il nostro linguaggio, quello adottato fino a quando una forte ventata di moralismo ha cominciato a strapparci le parole di bocca, rendendoci tutti uguali, tutti spenti, tutti muti. Tutti senza pensiero individuale «perché la parola, se non trova asilo nella bocca dell’uomo, è già la morte, senza resurrezione», scrisse un altro poeta contemporaneo.

11 gennaio 2024

«Mettici la mano», regia di Alessandro D’Alatri

Roma, Teatro Parioli
il 10 gennaio 2024

A MAURIZIO DE GIOVANNI NON BASTA METTERCI LA MANO

Lettera aperta a Gianpiero Mirra, produttore dello spettacolo in scena al Parioli

Caro Gianpiero, in nome della nostra ormai antica amicizia, facendo uno strappo alla consuetudine professionale, mi permetto di scrivere direttamente a te, come in una lettera aperta, le mie impressioni su Mettici la mano, in scena al teatro Parioli fino a domenica 21 gennaio. Essendo tu il produttore dello spettacolo, penso che nessuno più di te possa apprezzare e comprendere l’inconsueta iniziativa. Sei figlio d’arte e sin da piccolo sei cresciuto tra le polveri del palcoscenico – per un periodo respirammo persino la stessa: una polvere all’epoca di stelle, naturalmente, oggi scomparse. Non possiamo negarlo, siamo stati fortunati a conoscerle, a frequentarle. Quindi – con te non posso fingere – tu sai cos’è il teatro.

Di davvero teatrale, puoi immaginarlo, mi ha colpito la bella scena di Toni Di Pace. Credo che sia una delle realizzazioni più riuscite osservate questa stagione, anche se di un realismo ormai inusuale: ma forse, proprio per questo, lo spaccato visivo è d’effetto. Riproduce perfettamente l’immagine di una Napoli impoverita e nascosta nell’immediato sottosuolo, con le antiche arcate, le grandi pietre tufacee tipiche della nostra città. Potrebbe ricordare anche gli scantinati dei palazzi nobiliari del centro storico. Questo spazio sotterraneo, ma non troppo, funge da rifugio di fortuna per i nostri tre protagonisti, colti all’improvviso dalle sirene che annunciano l’ennesimo bombardamento delle truppe alleate.

Maurizio De Giovanni, autore del testo, ambienta l’episodio (il termine televisivo, purtroppo, è quasi obbligatorio) nella primavera o nell’estate del 1943, quando i tedeschi erano ancora a Napoli e le fortezze volanti facevano le loro incursioni quasi giornaliere per sbranare, a morsi di bombe, brandelli di città. Tuttavia l’importante quadro storico, già usato dal teatro classico partenopeo, fa da sfondo a uno sbiadito dipinto umoristico. Perché sbiadito? Perché, anche facendo uno sforzo e non volendolo nominare, quel titolo eduardiano è talmente ingombrante che – caro Giampiero, ricordi? – il pensiero di chiunque è volato a Gennaro Iovine (oltretutto se n’è parlato molto ultimamente). D’altronde, costruire un solido umorismo sotto i bombardamenti è materia per eletti. E De Giovanni non sembra essere all’altezza, tant’è che in più occasioni si è rivolto proprio a quella grande lezione del passato: «È rispustera» dice Maione, proprio come Eduardo nel suo Natale, quando inventa un originale epiteto per Ninuccia; «Che razza di bestie ci sono qui?», si chiede sempre il brigadiere, come Titina nel boschetto dei fuorilegge in un famoso film con Totò e Peppino. Mi chiedo, e credo che anche tu abbia aguzzato la curiosità in tal senso: sono citazioni di riconoscenza o sono ancore di salvataggio? Già il soprannome del femminiello mi sembra un dichiarato omaggio a un personaggio ormai entrato nell’empireo della canzone napoletana. Viviani ne sarà certamente contento: la sua «Bammenella» sopravvive anche nel mondo della televisione digitale, anche se sotto (mentite) spoglie poco femminili.

Che dire del finale scontato, annunciato già a metà commedia con un improvviso svenimento della ragazza? A proposito, tra i due protagonisti s’accende una strana gag sulla parola prena, che il napoletano usa esclusivamente per le donne pregne, ossia incinta, e non per altro; l’equivoco, sostenuto in scena, con piena risulta alquanto forzato, infatti, il corrispettivo è chino (al maschile) e chiena (al femminile). A Napoli anche i più piccoli sanno che se la mamma è prena ci sarà per loro un fratellino, ma se la sua pancia è chiena è perché durante le feste ha esagerato con gli struffoli! Anche una falsa citazione storica, mi ha colpito: quella riferita alla ruota degli esposti all’Annunziata, che nel ‘43 già non funzionava più da almeno 60 anni. De Giovanni dovrebbe saperlo!

Sono tutte superficialità da dare in pasto ai televisivi che si ubriacano di sciocchezze. La stramaledetta televisione, che in passato ha succhiato tanta linfa vitale al teatro, e ora restituisce un prodotto già masticato da milioni di persone e già precario, un prodotto che ormai tutti conoscono (tranne chi, come il sottoscritto, la sera frequenta platee ignorando le serie tv, come quella del Commissario Ricciardi, da cui la pièce è tratta). Tu, che sei impresario, sai perfettamente che gli esperimenti piccoli, come quelli che si possono provare in palcoscenico con tre attori, servono a tastare il terreno per programmare quelli più grandi. Fare il percorso inverso ha uno scopo molto differente, che troppo somiglia – anche questo – a un’ancora di salvataggio. Ne convieni, caro Gianpiero? Ti sei accorto che l’umorismo del De Giovanni è vittima di cadute di stile tipiche di una prosaica programmazione televisiva, dove – per esempio – al cospetto di un femminiello, per strappare una grassa risata, si ricorre addirittura all’evocazione della banana? Una battuta che al Salone Margherita, già nel Dopoguerra, probabilmente avrebbero accolto con qualche perplessità.

Il vero problema, e tu che sei nell’ambiente da prima di me lo hai già sperimentato, è che ormai il pubblico che va a teatro è talmente infarcito di pessima televisione che è pronto ad applaudire ad ogni schiamazzo, a un qualunque bercio stonato (non è questo il caso, per carità, non fraintendermi), a una volgarità oltre misura, e subito esplode il tripudio in platea. L’importante è che sul palco ci sia il volto vivo del loro beniamino a 85 pollici.

Anche gli attori in scena, e mi riferisco sia ad Antonio Milo (il suo brigadiere, in verità, rientra troppo nei cliché comici delle guardie partenopee) che al bravo ed eccentrico Adriano Falivene, adeguano la qualità della recitazione al testo, arricchendola con facili lazzi e palesi carrettelle. Dai dialoghi, infatti, essi son presi per mano e condotti nella riedizione di personaggi che già masticano con sicurezza da tempo, e non già perché lo spettacolo è in replica sin dalla scorsa stagione, ma per aver ricevuto il conio davanti alla macchina da presa nel 2021. Non a caso le loro intese – certamente ben rodate – sono tutte molto ravvicinate; si ha l’impressione che i due fatichino a dirsi battute a distanza, come se avessero il timore di uscire da una ipotetica inquadratura, un pericolo che in palcoscenico non sussiste. La giovanissima Elisabetta Mirra, benché ancora acerba, mostra una buona predisposizione che – speriamo – non venga contaminata nell’immediato futuro dalle esigenze poco teatrali del piccolo schermo. La gavetta migliore resta sempre il palcoscenico e in palcoscenico la deve consumare. Commovente, a chiusura di sipario, il ricordo del regista Alessandro D’Alatri, scomparso prematuramente il 3 maggio scorso. Comunque, caro Gianpiero, ti abbraccio e ti saluto; e, se puoi, mettici una mano tu: la tua sapienza è certamente più teatrale che televisiva. Ne sono certo. (fn)
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Mettici la mano di Maurizio De Giovanni, con Antonio Milo (brigadiere Maione), Adriano Falivene (Bammenella), Elisabetta Mirra (Melina). Regia di Alessandro D’Alatri. Al Teatro Parioli, fino al 21 gennaio Produzione, Diana Oris: direttore organizzativo Gianpiero Mirra, a cui è indirizzata la recensione.

Foto: da sin. Antonio Milo, Adriano Falivene, Elisabetta Mirra. © Anna Camerlingo

Pubblicato anche su Quarta Parete l'11/1/24

06 gennaio 2024

«Central Park West» di Woody Allen


Roma, Teatro Tordinona
5 gennaio 2024

UN CONCENTRATO DI ESILARANTI TRADIMENTI

Coppie in crisi, delusioni, giovinezza che fugge, qualche rimpianto che viene a galla più tenacemente, un po’ di leggerezza da parte di Carol, un po’ di irrequietezza da parte di Sam, e il cocktail del tradimento è servito sia per Phyllis che per Howard. Ma bisogna mettere un minimo d’ordine in questa complicata vicenda che, con arguzia e divertimento, condisce la commedia di Woody Allen riproposta da Antonello Avallone nell’accogliente sala del Teatro Tordinona. Dunque, Phyllis è la moglie Sam; Carol lo è di Howard. Ma Sam e Carol hanno una relazione da qualche anno, e a sentir lei la loro fuga d’amore è ormai imminente. Tuttavia la consumata amicizia tra le due donne fa subito nascere qualche problema che si infittisce quando arriva Howard con una pistola.

Sono questi gli elementi drammatici di Central Park West su cui Woody Allen ricama, con la consueta irrefrenabile ironia che più volte sfiora il paradosso, il rapporto tra due coppie di amici che scoprono all’improvviso di essere capitolati sulle loro stesse affinità. Phyllis e Howard diventano i rappresentanti dell’innocenza e insieme conducono un’indagine nei confronti dei due adulteri. Le domande si susseguono e altre interessanti novità vengono alla luce.

L’allestimento di Avallone resta fedele al testo originale, rispettando tutte le cifre dell’autore, a cominciare dalla scelta musicale, con il clarinetto di Benny Goodman in apertura, poi il rullo del tamburo di Sing, Sing Sing, e infine As time goes by, ormai un classico della cinematografia. E al cinema è dedicato, stampato sul mobile bar della sala della casa di Sam, anche il grande ritratto di Groucho Marx che di Allen è stato il mentore. Inoltre, sarebbe mai potuta mancare la psicologia? Phyllis, interpretata con tenacia e puntiglio dalla bravissima Elettra Zeppi, è, infatti, una psicologa di successo e il suo carattere è sempre ben evidenziato sia nei toni decisi che nelle sicure movenze. È lei che, come un esperto direttore d’orchestra, scandisce i tempi della commedia: il regista non me ne vorrà, se indico nella Zeppi il perno della riuscita ritmica di questo spassoso e intrigante divertissement.

L’alter ego è naturalmente l’Howard di Avallone: personaggio sempre indeciso, insicuro più che mai, vittima di una sensibile instabilità mentale; scrittore assai mediocre, ma di sottile curiosità, anche se un po’ svagata, e soprattutto dominato da un forte complesso d’inferiorità. Insomma, il tipico personaggio che Woody Allen tante volte ha portato sul grande schermo. Avallone non si tira indietro nel ricalcare pedissequamente la recitazione del più famoso attore, riproponendosi come sua controfigura: ne abbraccia le nevrosi e ne sottolinea i tic gesticolando con audace frenesia, e perfino ne ripete le incertezze lessicali, quelle che per anni abbiamo sentito pronunciare dall’indimenticabile Oreste Lionello, doppiatore dei più famosi lungometraggi di Allen.

Ad Avallone regista – volendo trovare il pelo nell’uovo – si potrebbe far notare che una pistola carica dimenticata sul tavolo, in bella vista, per gran parte del tempo, desta qualche perplessità. Soprattutto quando Sam, inconsapevole, appoggia sullo stesso ripiano una valigetta, proprio lì, accanto all’arma che è sotto il suo sguardo. Possibile che non gli venga la curiosità di sapere perché una pistola sta sul suo tavolo da pranzo? Oppure dobbiamo pensare che le armi, nell’appartamento di Sam e Phyllis, abbiano lo stesso peso delle sigarette!

Flaminia Fegarotti è Carol, personaggio difficilissimo perché donna dalla tripla personalità: amica, moglie e amante. Ma le sue sfaccettature psicologiche non si esauriscono qui: c’è dell’altro che però non anticipiamo. Impeccabile nel suo stretto ed elegantissimo abbigliamento che la protegge da ogni sospetto rendendola alla vista quasi irreprensibile. Anzi, forse un po’ troppo ingabbiata: voglio dire – con il massimo rispetto, seguendo ovviamente i suggerimenti del testo dettati dall’esuberanza di Phyllis – che, se Howard rispecchia perfettamente l’epiteto di «mezza sega», Carol non rientra fisicamente nella cornice della «vacca carnosa». Tutt’altro!

Sam è interpretato da Claudio Morici, marito dall’avventura facile ormai deciso a chiudere il rapporto con la moglie, avvocato puntiglioso, attento a discolparsi per un vocabolo equivocato, incallito dongiovanni pronto a capitolare di fronte al sogno d’amore. Il cast si chiude con Maria Angelica Duccilli, deus ex machina di una situazione che rischia di scivolare nel dramma ma che per fortuna resta sempre vivacemente comica. Repliche al Tordinona ancora fino a domani, ma invitiamo il regista e attore a riproporla quanto prima, sicuri dell’affezione del pubblico romano. (fn)
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Central Park West di Woody Allen. Con Antonello Avallone (Howard), Elettra Zeppi (Phyllis), Flaminia Fegarotti (Carol), Claudio Morici (Sam), Maria Angelica Duccilli (Juliet). Regia di Antonello Avallone

Nella foto: Antonello Avallone ed Elettra Zeppi © Daniele Cametti

Pubblicato anche su Quarta Parete il 06/01/24

05 gennaio 2024

«Diavoli in cucina» di Gianni Quinto

Roma, Teatro de’ Servi
4 gennaio 2024

AI FORNELLI DEL «RIGATONI», I QUATTRO CHEF DELL’APOCALISSE

Dopo aver pazientemente ricostruito la locandina, grazie alle fotografie rintracciate sui profili Facebook di ciascuno degli interpreti, affiancandogli i ruoli, e quindi donando a ogni fisionomia una dignitosa identità (valore che i produttori pare abbiano scordato) attoriale e non solo, torna alla mente il periodo di quando nei foyer del teatro si leggevano con comodità i nomi accanto ai personaggi. Non parliamo poi di quando si sfogliavano i programmi di sala che conservano ancora oggi – per chi li mantiene – gran parte della storia del teatro del dopoguerra! Era un altro secolo, evidentemente, eppure la corrente elettrica già esisteva, la televisione pure, e c’era anche un gran rispetto per il teatro. Non c’era pericolo di essere infastiditi dal cellulare del vicino, per esempio!

04 gennaio 2024

«Una vita nel teatro» di David Mamet


Roma, Off/Off Theatre
3 gennaio 2024

Robert e John: un’amicizia dietro le quinte

All’Off/Off il nuovo anno si apre con un omaggio a uno dei più importanti autori contemporanei: David Mamet, statunitense, che nel 1977 scrisse Una vita per il teatro. All’epoca Mamet aveva 30 anni e forse non sapeva ancora se avesse poi davvero dedicato la sua esistenza al teatro, ma già allora si distinse come acuto osservatore degli attori che frequentano il palcoscenico. Nella scrittura di Mamet, Robert e John, infatti, non interpretano personaggi, ma perlopiù vivono il loro mestiere in camerino, talvolta in quinta. Le rappresentazioni delle grandi opere di Shakespeare o di Cechov, che i due interpreti portano in scena, sono un pretesto per raccontare un’amicizia tra un vecchio e un giovane, che nasce e si rafforza, poi si raffredda e infine si rinsalda.

In quest’ottica Duccio Camerini, regista (oltre che interprete), accentua ancor di più il confine tra la realtà del dietro le quinte e la finzione del palcoscenico, concentrandosi sui sentimenti veri che nascono in scena tra gli attori, i quali, grazie ai personaggi che interpretano, riescono a portarsi in camerino quella dose necessaria di finzione che li aiuterà a rintracciare se stessi.

Un teatro, dunque, quello di Mamet, fatto non di personaggi senza vita (o con una vita a tempo determinato), ma un teatro che crea rapporti umani universali, che scava nella psicologia degli interpreti, dove i copioni sono soltanto dei quadernoni pieni di fogli rilegati alla rinfusa; come se le parole scritte dai grandi autori prendessero il posto del nostro più incerto parlare quotidiano. Secondo questa logica, il duello dei due spadaccini, che in scena altro non è che la replica di un virtuosismo, ripetuto dietro le quinte diventa un modo per guardarsi finalmente negli occhi e magari sorridersi per scoprire un’intesa fino a quel momento celata da una finta rivalità.

Camerini ed Edoardo Sani, scelgono una recitazione giocata su toni distesi, evitando giustamente qualsiasi colorazione enfatica. La stessa che, ad inizio testo, l’autore vuole ironicamente sottolineare: «una recitazione ben calibrata» dove «il piano di significazione» si deve stabilizzare. Ecco, tutto questo, evidentemente, secondo Mamet, non si deve esibire; e Camerini ne ha colto appieno il consiglio. Coadiuvati da due valenti servi di scena (Marcello La Bella e Lorenzo Rossi, anche aiuto registi) i numerosi quadri si alternano in uno spazio delimitato da eleganti quinte nere che di volta in volta viene occupato da differenti oggetti che fotografano i vari momenti di una prolungata collaborazione tra i due attori, tra i quali si avvicendano piccoli episodi sempre nuovi, ma tutti con un unico scopo: perseguire quel legame che si avviluppa intorno al ceppo dell’educazione teatrale.

Robert, il più anziano, comincia a tastare il terreno del rapporto amichevole che sta instaurando con il più giovane collega, John, individuando una ipotetica vittima, presumibilmente la prima attrice, «la stronza» di turno, colei che recita ancora col birignao, ma il tentativo fallisce perché l’altro è già stato ammaliato dall’abile tentatrice del camerino accanto. Da questa spudorata falsa partenza, però, gradualmente il loro rapporto inizia a cambiare: col tempo e con le richieste sempre più esigenti di Robert, quella che sembrava una fredda simpatia diventa essenziale amalgama per i due che fino a quell’istante conducevano vite assai diverse. Mentre si confrontano e criticano a vicenda le performance dell’uno e dell’altro, i più piccoli e insignificanti fatti personali rivelano i loro animi scoprendo l’autentica entità del carattere di ciascuno.

Galeotto fu il palcoscenico, certamente, e anche se, nella versione di Camerini, questo, quasi scompaia del tutto dietro una quinta côté jardin, è «la puzza» (così la chiama Robert) che fa sentire impellente la necessità del più anziano di voler cercare un valido erede. Un amico fidato a cui passare il testimone del codice educativo da tenere in scena e dietro le quinte: perché Robert sa bene che soltanto la vita è più effimera del teatro. (fn)
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Una vita nel teatro di David Mamet, con Duccio Camerini (Robert) e Edoardo Sani (John); e con Marcello La Bella e Lorenzo Rossi. Traduzione di Roberto Buffagni. Regia di Duccio Camerini.

Foto © Alberto Martinangeli

Pubblicato anche su Quarta Parete il 4/1/24


03 gennaio 2024

«Che hai fatto in tutti questi anni», Einaudi, 2021 (seconda parte)

MEDIOLI: «È LA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO DI UN GANGSTER»

Claudio Mancini, l’amico: «Sergio era un gran fijo de ‘na mignotta, praticamente un genio»

Ipse dixit: «Basta western», ma un grande regista, un uomo che ha vissuto di cinema sin dalla nascita – il padre di Leone, Vincenzo, in arte Roberti Roberti, fu un pioniere del muto all’epoca di Francesca Bertini – è soprattutto, per indole artistica, un gran bugiardo. Non a caso Sergio Leone, che con i suoi film è diventato il maestro dell’antagonismo tra il Buono e il Cattivo, comincia le riprese di C’era una volta in America partendo proprio dalla lotta tra il Bene e il Male: un western in versione metaforica, una rappresentazione irreale tra le ombre di Rama e Ravana, personaggi antagonisti della mitologia induista. Affermare che, dopo la Trilogia del dollaro e i dopo «C’era un volta il west» e «Giù la testa», l’intenzione è di abbandonare il genere western suona come il campanello di un rito scaramantico: in questa storia di gangster la forza del Male sembra trionfare sul nascere, eppure sono l’Amore e l’Amicizia i sentimenti portanti del film. Fatto sta che quelle immagini, in perfetto stile giapponese, sono le prime a essere girate e tra le prime a essere utilizzate in fase di montaggio, come se Leone volesse far intendere che, anche lontano dai suoi pistoleri, le anime rivali del Far West restano vive ovunque. D’altronde i rapporti col Sol Levante dei samurai di Kurosawa si sono intrecciati, senza più lasciarsi, sin dai tempi di «Per un pugno di dollari» (1964).

02 gennaio 2024

«Che hai fatto in tutti questi anni», Einaudi, 2021 (prima parte)

SERGIO LEONE E I PRIMI 40 ANNI DI NOODLES E MAX

In un libro, la genesi del capolavoro cinematografico raccontata da Piero Negri Scaglione

Nel 1984, quaranta anni fa, usciva nelle sale cinematografiche «C’era una volta in America», capolavoro di Sergio Leone, considerato dal pubblico uno dei film più emozionanti di sempre, e dai cinefili tra le opere più riuscite; un film pieno di fascino che ha nella sua gestazione una storia altrettanto affascinante. L’ha raccontata Paolo Negri Scaglione pubblicando per Einaudi (2021) «Che hai fatto in tutti questi anni».

Il 14 giugno 1982, poco meno di un mese prima che Dino Zoff alzasse la coppa del mondo al cielo di Madrid, alle 9.30 del mattino, a Roma, Sergio Leone dà il via alle riprese del suo nuovo film. Si gira in una piccola sala teatrale di fronte al Campidoglio, chiusa al pubblico dal 1969 a causa di un piccolo incendio. Il regista, con Robert De Niro, Olga Karlatos, Mario Brega e il produttore esecutivo Claudio Mancini si danno appuntamento al Teatro della Cometa, insieme con altre comparse di Cinecittà, mentre alcuni tecnici, con lo scenografo Carlo Simi già hanno allestito la «fumeria d’oppio dove De Niro/Noodles è disteso a terra, la lunga pipa in bocca. Raccoglie il giornale con la notizia della morte dei suoi tre compagni» e ascolta per la prima volta lo squillo di un telefono che solo lui sente suonare.

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