SOLFRIZZI, SOSIA CON L’AIUTO DI AMADEUS
All’aprirsi della tela, alcuni macchinisti – che una volta erano gli attori stessi, i cosiddetti scavalca-montagne – approntano la scena per la recita. Fabiana Di Marco ha ideato un vecchio carrozzone, l’antico carro di Tespi, come sfondo per la rappresentazione dell’Anfitrione. In questa scelta, curiosa ed efficace, si può individuare il disegno di regia con il quale Emilio Solfrizzi intende condurre la delicata operazione di riesumare un testo (teatralmente sacro) del terzo secolo avanti Cristo. Il Carro di Tespi, infatti, fu il teatro itinerante dei saltimbanchi di un tempo. Risulta, quindi, abbastanza evidente che la Compagnia Molière (così è scritto sulla facciata del carrozzone, in omaggio all’autore francese che riscrisse l’opera nel 1667) sia composta da commedianti pronti a restituirci un Plauto attraverso l’esibizione tipica dei guitti.
Intendiamoci: oggi, essere guitto in scena non è più un’offesa, se però la finzione teatrale è tenuta con precisa rigidità e magistrale senso comico. Un attore deve saper recitare la parte del guitto esattamente come s’immedesima in quella di Arpagone o di Amleto. Possiamo tranquillamente sostenere e promuovere la storia del guitto, così come l’hanno resa platealmente artistica innumerevoli attori dell’avanspettacolo: da Petrolini a Rascel, ma soprattutto Totò. E non era una compagnia di sublimi guitti quella capeggiata da Gennaro De Sia, protagonista di una delle più divertenti commedie scritte da Eduardo, «Uomo e galantuomo»? E non era fondato sulla guitteria tutto il teatro di Scarpetta e di Petito; e l’antica commedia dell’arte, fino al più lontano fescennino? Dunque, che male c’è a riproporre una commedia di Plauto – che probabilmente fu tra i primi a intuire che si sarebbe potuto scrivere un teatro per guitti – alla maniera dei saltimbanchi, artefici dell’improvvisazione?
Emilio Solfrizzi sa essere un bravo attore, conosce i tempi comici (lo ricordo assai divertente in un Feydeau diretto da Binasco), è padrone della scena, ha le carte in regola per imbastire un simile allestimento immaginato sull’abile verve empirica che gli appartiene, peccato però che non sappia gestire un’adeguata guitteria. Non è un reato, per carità, ma se si ostina a battere una forma teatrale tra le più difficili da affrontare ed equilibrare, deve prima di tutto saper pescare un’inventiva comica inedita. L’arte dell’improvvisazione è materia delicatissima: bisogna avere l’intera squadra ben allenata per portare avanti un copione destrutturato e riutilizzato come canovaccio per costruire nuovi lazzi e fresche boutade all’impronta. Non basta citare le battute di Totò tratte dai più famosi film per modernizzare Plauto; non basta rifare il verso ai comici toscani dell’ultima generazione per rendere appetibile Plauto; non basta fare la parodia di «Amazeus» (che distribuisce pacchi) per arpionare l’attenzione del pubblico televisivo. Ed è quantomeno indelicato prendere a pretesto il dramma di Filumena Marturano per proporre un effetto di scarsa vis comica: ‘e figlie so’ figlie e non possono essere argomento di facile dileggio, così com’è stato incautamente proposto.
Forse Plauto, se è sopravvissuto a più di due millenni di invasioni barbariche, si regge in piedi anche da solo, senza l’aiuto di Totò, e soprattutto senza quello di Amadeus. Forse Solfrizzi dovrebbe avere più fiducia nei testi che sceglie, più fiducia nelle sue capacità attoriali, più fiducia nei registi che l’hanno diretto in passato e lasciare a loro lo sguardo di un occhio pertinente esterno. Per esempio, io ho sentito la mancanza di una scena ferma: assistere a due ore e più di frenetiche passeggiatine in ribalta, senza motivo, hanno provocato, in me spettatore, non un riflesso comico, ma quello ansiogeno. Il regista che dirige se stesso stando in palcoscenico, senza mai potersi osservare dalla platea, non se ne accorge: e rischia di modellare una commedia esemplare sull’impalcatura di uno sketch televisivo.
Foto: Simone Colombari con Emilio Solfrizzi (© ???)
Post scriptum – Al termine della conferenza per la presentazione della stagione appena iniziata (22 aprile scorso), invitai Guglielmo Ferro, direttore del teatro, a porre maggiore attenzione all’impaginazione delle locandine e delle brochure degli spettacoli (qui l’articolo), affinché contenessero, oltre al nome dell’attore, anche quello del personaggio, così da poter riconoscere l’interprete ed eventualmente promuoverne la prova. Alla prima dell’Anfitrione, però, locandina e brochure indicavano chiaramente l’identità e la mansione dei singoli collaboratori, raggruppando gli attori in un calderone senza specificarne il ruolo. Nulla è cambiato: si continua a non aver rispetto per la professionalità dei protagonisti in scena!