Erbalunga, 4 agosto 2025
«LA LIBERTÀ È UNA CHIAMATA»
Dopo circa tre mesi di estenuante clausura fisica nonché intellettiva, dovuta a una lunga, oppressiva e soprattutto calda, ristrutturazione casalinga, da sotto le macerie della fatica e della polvere, torna ad affacciarsi la copertina del libro di Marcantonio Lucidi che avevo messo da parte per riprenderlo a fine lavori e dargli giusto riconoscimento. Mi sentivo in debito con Lucidi. Un libro è un valore, quando è ben scritto, e maggior significato acquista quanti più particolari toccano, sfiorano, accarezzano la memoria e le esperienze di ciascun lettore. Tacchi d’acciaio, s’intitola: laddove i tacchi che «tacchettano senza tacchettio» sono, come si evince dalla foto di copertina, quelli di una donna vivace, emancipata al limite della spericolatezza, di carattere fermo, certamente dotata di grande femminilità e intelligenza, cosciente della propria vulcanica esuberanza d’artista ribelle, ma senza troppa ambizione e senza animosità femminista, argomento che più volte viene esaminato alla luce del sole o anche in controluce, ossia dalla parte dei maschi. Giovanna, Gio’ per gli amici, è la baronessa Bruno di Belmonte di nobile schiatta siciliana, e dovrebbe essere – il condizionale è più che giustificato – la protagonista del romanzo. Con lei, e con le sue abitudini un po’ stravaganti e un po’ altezzose e talvolta tenerissime, si alternano alcune figure maschili, tra cui quel Maurice, francese d’origine, che guarda caso porta lo stesso cognome dell’autore.
Un romanzo – spiego l’uso di quel condizionale di poc’anzi – nell’educazione scolastica vorrebbe una storia che comincia e che finisce, con uno o più personaggi protagonisti. Un romanzo potrebbe contenere all’interno anche altre storie e altri attori. Un romanzo potrebbe essere composto da episodi che al termine dovrebbero formare un unicum; e poca importanza ha che i fatti raccontati vengano presentati in ordine cronologico o descritti apparentemente alla rinfusa, come in una pellicola cinematografica, rimpastati dalle mani di un esperto montatore al servizio di un regista visionario. Tacchi d’acciaio non possiede queste caratteristiche «classiche», eppure l’editore (La Lepre, Roma) non ha esitato a segnalare l’opera di Lucidi come un romanzo. D’altronde non è saggio, e non è prettamente una biografia, benché nasca dal sapore di una madeleine da sempre gustata e rievocata. La sensazione – per quel che vale la sensazione di un lettore semplice che negli anni della sua infanzia e adolescenza ha frequentato redazioni di giornale e sale stampa, grazie alle virtù paterne, quando il computer era una chimera – è che quei tacchi d’acciaio non solo tacchettano, ma più probabilmente ticchettano per raccontare un mondo che non c’è più. Marcantonio Lucidi è prima di tutto un giornalista e i tasti d’acciaio della sua vecchia macchina per scrivere ticchettano imperturbabili emettendo i suoni di un passato che riemerge dalle ceneri della Grande Guerra. Non a caso il libro ha un sottotitolo determinante, 1914-1992: il naufragio di un mondo.
È quel mondo il vero protagonista del libro. Un mondo fatto di aristocrazia e di follia, di fame disperata e di divertimento, d’improbabili avventure e drammatiche sciagure, ma anche di tentativi mal riusciti e riuscitissimi. Un mondo dove era ammessa la possibilità di sbagliare, ma che offriva l’opportunità di risorgere. Un mondo che si reggeva sulla scansione lenta del tempo che aveva un valore epocale (e non millesimale), che ambiva alla musicalità delle parole più che alla volgarità dell’imposizione delle proprie ragioni. Un mondo in cui era detestabile affermare la sovranità dell’ego che indisponeva la relazione con il prossimo: motivo per cui l’autore, seguendo l’educazione imposta dai suoi natali, fa un passo indietro lasciando la precedenza agli episodi, e rinfrescandosi la memoria e documentandosi su quelli troppo lontani da lui («Il romanzo è costruito sulle storie e l’aneddotica delle famiglie Bruno di Belmonte e Lucidi, su ricordi personali e documentazione privata – avverte la nota in apertura – Sono stati consultati anche archivi di giornale e siti internet») s’immedesima in un Don Chisciotte per narrare la scomparsa «dell’amor cortese e della cavalleria – trascrivo da pag. 171 – di fronte all’avanzare della modernità e della borghesia». Sono parole riferite a un film di Orson Welles, che il cineasta americano volle realizzare chiedendo la collaborazione di Maurice Lucidi, padre di Marcantonio, ma sposano perfettamente il senso e la costruzione del romanzo.
Soltanto l’incipit riporta una frase in prima persona: «Per molti anni, ho aspettato che i miei morti si facessero vivi». Un’attesa durante la quale Lucidi – lo si intuisce dalle righe successive con un’aspra critica alla morte – non è mai andato a letto presto, ma anzi ha sempre vissuto seguendo il decalogo cortese del piacere che allontana la noia. E allora il romanzo si sviluppa come un film canzonatorio, ironico, sagace, ma sempre cólto, contro la malattia del tedio: un omaggio certamente a papà Maurice, sceneggiatore, regista e montatore tra i più disincantati dell’empireo di Cinecittà. Con occhio cinematografico, quindi, la telecamera mette a fuoco aneddoti della vita di Giò’ – madre dell’autore – vulcanica baronessa, sfrontata e irregolare, la cui esistenza s’è incrociata con quella dei protagonisti dell’epoca. Sfilano nomi famosi di personaggi di grande prestigio intellettuale, nomi altisonanti di levatura aristocratica, nomi grossi del cartello internazionale politico del Novecento, e (per rispetto) nomi di fantasia che servono a mascherare l’identità mediocre di chi è dipinto con colori più bui e non può più replicare. Ma – altro motivo per cui Tacchi d’acciaio si discosta dal romanzo classico – ogni riferimento non è mai puramente causale e tutti i personaggi non sono mai frutto di un’invenzione artistica. Tutto è vero. Tutto si regge sull’ossatura delle pagine di cronaca dell’archivio di un quotidiano che Marcantonio Lucidi conserva nel dna. Tutto è storico. Ogni particolare appartiene al nostro passato: da Roma, set principale della narrazione, a Napoli, piazza secondaria ma necessaria per lo sviluppo di quella vitalità italiana; ancora capitale di un meridione che affonda le radici nelle terre siciliane dei Bruno di Belmonte: i loro mari, i loro tonni, i loro echi verghiani. A questa, che è storia del nostro sud, fa da contraltare il più tenace attaccamento di chi ha scelto Roma come rifugio di sopravvivenza dalla depressione della guerra del ’15-’18. Così due famiglie, una del nord europeo e l’altra agli antipodi, si incontrano sulle pendici dei sette colli per partecipare a quella che sarà la grande abbuffata della Dolcevita.
Una cena sopraffina, infatti, chiude il cerchio storico. Una tavola intellettuale apparecchiata per cinque condottieri delle più profonde riflessioni del secolo scorso. Sono il generale e ministro israeliano Moshe Dayan, l’attore francese Pierre Clementi, il giornalista cecoslovacco Jiri Pelikan, Maurice Lucidi e Pierpaolo Pasolini che affrontano argomenti politico-sociali di un’Europa che già volge al declino. Forse è l’unico momento in cui ci si accorge che l’incontro fa parte di una realtà appena romanzata, tuttavia ogni parola detta è autentica, ogni concetto sul presente storico è verità che, pur se spietata, è condivisibile e ancora attuale. E purtroppo ogni disgraziata previsione sul futuro s’è rivelata fedele e incontrovertibile. Il simposio costituisce il dialogo che contempla tre portate (ideologie, meditazioni e inquietudini), e precede il conto più amaro: il naufragio della libertà che «non è un diritto, non è una conquista, uno strappo, un possesso, la libertà è una chiamata». Alla quale, soltanto qualcuno, per privilegio o per sorte, per scaltrezza o per rango, ha prontamente saputo rispondere negli attimi più brillanti di un Novecento ormai lontano anni luce. (fn)____________________
Tacchi d’acciaio - 1914-1992: il naufragio di un mondo, romanzo di Marcantonio Lucidi. Postfazione di Elisabetta Darida. La Lepre edizioni, 2025, pagg. 297. Euro 24
Foto: L’Astra, l’imbarcazione appartenuta al conte Matarazzo, «il più bel veliero d’Italia» (pag. 285), simbolo estetico di libertà blasonata