LA GRANDE BELLEZZA CHE NON SALVERÀ NAPOLI E NEMMENO IL MONDO
A chi mi ha chiesto se l’ultima opera di Paolo Sorrentino mi sia piaciuta o meno, ho risposto che lei, l’attrice protagonista, è talmente bella che il mio giudizio sul film non interessa più neanche a me. Due ore e mezzo per vedere il film e quattro ore almeno per disintossicarmi da tanta bellezza per riuscire a riveder le stelle. Una bellezza che non salverà il mondo nemmeno quando c’erano i bambini, ma anzi lo graverà, e non poco, di infelicità, di spleen, di appucundria, perché giunge dalle acque di quel golfo popolato dalle sirene, creature mitologiche che rapirono con il canto e con lo sguardo i loro spasimanti affogandoli nelle profondità marine. Una bellezza talmente ossessiva e malinconica da rimanere avviluppati nell’infelicità di Parthenope. D’altronde «è impossibile essere felici nella città più bella del mondo», dove Dio è l’unico a non amare il mare, perché quel mare è un tenace feudo del mito. Mito antico che risale al viaggio di Ulisse, ma anche mito moderno che si concentra nel sorriso di Celeste Dalla Porta.
Attrice al suo debutto cinematografico e – bravissima, forse troppo – già capace di ammaliare, con l’arte di uno sguardo seducente, chiunque caschi nella rete della sua visuale: passa il video, sfonda lo schermo e trafigge anche il cuore. E da spettatore ferito, ammetto che non è facile e nemmeno piacevole liberarsi delle sensazioni che provocano i suoi occhi che sono l’arma vincente di un film che fatica a consistere nell’arco della sua durata. Sicuramente non c’è la storia così come la prima parte, la più intensa, farebbe intendere. Resta evidente il senso del dolore, dell’insoddisfazione, della noia, della solitudine: intrighi cinquecenteschi di una Napoli accarezzata dalla penna raffinata della Yourcenar, di una Napoli la cui bellezza continua a sopravvivere negli strali di un passato che spuntano dal sottosuolo sempre nei momenti più bui.
Anna, soror (Anna, sorella) è il titolo di un racconto della scrittrice francese del 1981 ambientato nell’antica Napoli aristocratica dei viceré spagnoli. È la storia d’amore tra Miguel e Anna, fratello e sorella che vivono, appassionatamente e con discreta disinvoltura, un rapporto incestuoso che riescono a confessare perfino alla loro madre distesa sul letto di morte. Sono molte le analogie con il film di Sorrentino, il quale prende ispirazione anche dal titolo del volume che raccoglie l’episodio: Come l’acqua che scorre. E il regista fa scorrere l’acqua come il tempo che consuma la giovinezza senza intaccarne la bellezza, fino a raccoglierla in un otre mostruoso «fatto di acqua e sale» che suscita una tenera intesa con Parthenope. Ma l’acqua scorre anche come i tanti personaggi che accompagnano la protagonista in una serie di sequenze talvolta slegate l’una dall’altra, e che poi si perdono.
Ecco che le pagine rubate alla Yourcenar diventano le più preziose e strutturali, quelle che meglio legano una storia che poi tende a disgregarsi in una carrellata di figure che vivono in maniera estemporanea e sempre di luce riflessa – la luce della Grande Bellezza di Parthenope (donna e città) – ad eccezione del professor Marotta, eccellente Silvio Orlando, che con la sua presenza restituisce solidità umana e culturale a una sceneggiatura spesso infarcita di luoghi comuni e di stravaganze d’autore. Quella che più mi ha colpito riguarda il linguaggio della protagonista che giovanissima parla già per massime colte e pungenti. Più di una volta si sottolinea che la ragazza pronunci frasi ad effetto, e lei stessa ammette di voler far l’attrice perché «gli attori nei vecchi film hanno sempre la risposta pronta». Ma non basta. Non è credibile che, innamorata com’è del fumo delle sigarette (ne consuma più lei di Harvey Keitel in Smoke), a vent’anni parli con la sagacia di Oscar Wilde e non mostri mai un minimo di soggezione nemmeno nei confronti del suo scrittore preferito che per caso incontra al Quisisana di Capri.
Gary Oldman è un perfetto John Cheever, elegante e ubriacone, depresso e gentleman: il quale rifiuta le sfacciate avances di Parthenope perché, pur di non confessare la sua omosessualità, non vuole rubare nemmeno un istante alla giovinezza della donna. È una delle battute più riuscite. A Capri Parthenope manda in bianco perfino Gianni Agnelli che la corteggia dall’elicottero. A Capri fiorisce la spontaneità del desiderio che la spinge tra le braccia di Sandrino, l’eterno corteggiatore, e del fratello Raimondo in un triangolo tanto incantato quanto improvvido. A Capri si consuma l’amore, la vita si brucia, la leggerezza svanisce all’improvviso: è sufficiente un bacio di troppo e la tragedia prende il sopravvento.
Se la pellicola fosse terminata a questo punto forse Silvio Orlando, a ragione, avrebbe qualcosa da recriminare, ma il film eviterebbe di scivolare verso un baratro autodistruttivo, proponendo quadri e riquadri pretestuosi e ripetitivi: a cominciare da un inutile pomposo funerale interrotto dal colera; poi una parentesi tipica della più folkloristica criminalità organizzata, piuttosto lunga e imbarazzante, soprattutto per un disorientato Nello Mascia costretto ad accompagnare con il suono della chitarra un amplesso di fronte a un pubblico di depravati malavitosi (una scena che ricorda il più colorito Malaparte). L’apporto alla vicenda del boss Roberto Criscuolo (Marlon Joubert) non l’ho afferrato nemmeno come cameo camorristico. Più sensato il capitolo dedicato al cinema, durante il quale Parthenope ha l’occasione di conoscere anche il sesso saffico con l’insegnate di recitazione, la velata Flora Malva (Isabella Ferrari) corrosa dalla solitudine e nascosta dietro una maschera. Un incontro che la porterà a imbattersi in Greta Cool, la grande attrice partenopea e ormai internazionale. Il ruolo è interpretato da Luisa Ranieri, anch’essa deturpata dal trucco. Allora mi chiedo: perché la naturale bellezza della Ferrari e della Ranieri, in tanta esplosione di beltà, è stata neutralizzata dal trucco? Non oso supporre.
Con la presentazione di Greta Cool, Sorrentino dimostra di saper anche scivolare nel cattivo gusto e sguazzarci pensando di essere protetto dal talento. Il personaggio è una parodia disonesta di Sophia Loren, alla quale sono state attribuite cattiverie e volgarità che non si ricordano. Tuttavia le pesanti sferzate alla gente di Napoli «triste e frivola, determinata e svogliata, viva e sola» non sono del tutto fuori luogo. «Cari e orrendi napoletani», pare esordire Sorrentino in una lettera accorata e intima che fa pronunciare alla Cool/Loren. Chi ama Napoli conosce bene i suoi limiti e le sue grandezze che non sono soltanto estetiche, ma talvolta anche di fede, indifferenza e carità.
La bella Parthenope chiude la sua carrellata di conoscenze con il vescovo di Napoli, e a lui si concede nel duomo rivestita con gli abiti sacri del Santo che (con la fede, l’indifferenza e la carità che lo contraddistingue) scioglie il sangue nel momento dell’orgasmo. Un rapporto che si consuma sotto l’assoluta dissolutezza demoniaca e sacrilega: «San Genna’, futtaténne», consigliava uno striscione al tempo del disonore, quando in Vaticano venne declassato. Tesorone è il nome di cotanto vescovo (incarnato, al meglio della sua obesità, da Peppe Lanzetta), che macchia la casa del patrono, un nome in verità poco ispirato che sembra piuttosto una didascalia. Tuttavia il vizio e le esperienze della splendida sirena non le spengono la bellezza. In lei resta vivo l’amore della gioventù, quello che non serve a niente, quello che molti anni dopo (quando ormai ha preso le sembianze di Stefania Sandrelli, truccatissima) ritrova guardando i Faraglioni e lo scoglio dell’Unghia marina, in quelle acque dove s’annegò suo fratello Raimondo di Sangro.