27 novembre 2024

«Re Lear», Shakespeare/Lavia

Roma, Teatro Argentina
26 novembre 2024

LA TRAGEDIA DI UN RE INADEGUATO AL MONDO REALE

Quando, nel 1972, dopo quattro anni d’assenza dal «suo» teatro, Giorgio Strehler riprese la direzione della sala di via Rovello, portando in scena la tragedia shakespeariana, volle annunciare pubblicamente il ritorno al Piccolo facendo affiggere nelle vetrine esterne al foyer cinque locandine dove si poteva leggere a grandi caratteri: «Strehler prova Re Lear»: cosicché chiunque passasse per la via, poteva sapere che il re era tornato nel suo regno e che mai avrebbe abdicato. In quella ormai storica edizione c’erano, tra gli altri, Tino Carraro (Lear), Renato De Carmine (Gloster), Ottavia Piccolo (Cordelia e il Matto), Ivana Monti (Regan), Giuseppe Pambieri (Edmund) e, naturalmente, Gabriele Lavia (Edgar). Il quale, nelle note di regia del suo spettacolo – in scena all’Argentina fino al 22 dicembre – scrive che «il destino mi ha riportato a Re Lear, anche se avevo deciso di non farlo. Evidentemente Giorgio Strehler ha sentito e mi ha teso questa trappola».

Una trappola dove Lavia sembra aver trovato le migliori risorse per mettere, stavolta lui, in prova «Re Lear». E lo fa nel più classico dei modi, usando un vecchio palcoscenico di un teatro abbandonato, con quinte appoggiate alle pareti, sedie e bauli sparsi, una grancassa e un grande orologio sul fondo dimenticati da chissà quale vetusto allestimento; in proscenio, poi, un pianoforte scordato e un piccolo teatrino di burattini: germi sempre vivi per iniziare il gioco del teatro. È il terzo spettacolo consecutivo – se non erro – che Lavia costruisce, pur se con diverse prospettive, all’interno di un palcoscenico: lo fu per il «Berretto a sonagli» di Pirandello, poi per il goldoniano «Curioso accidente», e ora tocca alla tragedia di Shakespeare concedersi al trattamento rappresentativo del teatro nel teatro.

Per rimanere sentimentalmente legato all’edizione di Strehler, Lavia ha preferito adottare la stessa traduzione che ne fecero, all’epoca, Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari, così da ritrovare, come atto di fedeltà, almeno le stesse parole di allora. Sì, perché lo spettacolo è molto diverso. Gli attori entrano in scena in abiti moderni e si vestono da personaggi con i costumi che trovano in vecchi bauli. Si intuisce che il tentativo della recita prende forza dal piglio del primo attore, il re, il capocomico. Il quale subito vuol dividere il suo regno in tre parti e lo fa utilizzando un liso lenzuolo che cala dall’alto e sparisce un attimo prima che la scena sia conclusa. È questo il segno distintivo della regia: il potere che sfugge di mano al sovrano ormai stanco di governare, perché non è più sotto il controllo della sua mente non più attenta e solerte. Quando ancora il regno non ha trovato stabilità tra le mani degli eredi, l’inconscia volontà di Lear è già stata esaudita dalla macchina teatrale che gestisce i sentimenti dei personaggi prima che questi ne abbiano coscienza.

Il Lear di Lavia è, infatti, un vecchio che s’è arreso all’intraprendenza del potere, proprio come gli oggetti intorno a lui, che rappresentano l’inadeguatezza al mondo reale diventato piccolo e ridicolo, come il teatrino di burattini fatti rivivere dalle dita di Cordelia, unica figlia del re che non desidera un trono e già mima la finzione della tragedia che colpirà le sue sorelle. Nel momento in cui Lear si trova senza più regno, si scrolla di ogni velleità di comando, perde l’atteggiamento autorevole del condottiero e immediatamente s’illumina di fragile umanità: diventa prima padre e poi suddito di se stesso, della propria sensibilità assetata di genuina semplicità. Un valore di cui sente la mancanza per completare il suo percorso di uomo. Con lui, anche l’altro grande vecchio, Gloster, cede il suo imperio a vantaggio di una fatale ricerca della verità che trova soltanto nel buio della cecità.

Lavia ci vuole far intendere – chissà! – che la vera tragedia di Re Lear è l’esplorazione di un mondo a lui sconosciuto: povero, generoso e benevolo che a causa delle ambizioni, non aveva mai preso in considerazione. E che noi tutti non abbiamo mai calcolato come valida alternativa alla nevrotica cupidigia che «molte genti fé già viver grame». Tra l’amletico essere e non essere – avverte il regista – Lear sceglie la seconda opzione, ma quando giunge a toccare la verità del mendicante, quando arriva a riconoscere il dolore del fedele amico privato delle orbite degli occhi, si accorge delle tenebre che avvolgono il suo regno e la bramosia di potere che ha accecato due delle sue tre figlie.

Dopo poche battute si delinea la trama, solitamente resa sempre un po’ tortuosa dall’ambiguità dei personaggi, ma che, una recitazione generale precisa e logica, rivela immediatamente chiarissimi: ogni zona d’ombra viene illuminata, cosicché ciascuno recupera un carattere equilibrato e ben definito. Come in una scacchiera, il male di Regan e di Goneril si contrappone al bene di Kent e di Gloster, l’inganno di Edmund alla sincerità del Matto. A vederli agire tutti insieme sembra di osservare «un palcoscenico di pazzi» - né più né meno come quel che viviamo ogni giorno – in attesa della giustizia, rappresentata da Edgar, che però arriva troppo tardi, quando il dramma s’è compiuto e non restano che le lacrime per i morti e la disperazione per il sangue versato.

Superba l’esibizione del protagonista che da vecchio sovrano sembra ridiventare bambino innocente, da padre addolorato sembra voler rifugiarsi nel ricordo dell’essere stato figlio; d’altronde, delle sue straordinarie capacità recitative nel ruolo, ne aveva dato un ampio saggio durante la serata, a maggio scorso, dedicata alla lettura del testo (qui il ricordo dell’evento). Ottime le prove di Andrea Nicolini, dolcissimo e incisivo Matto, sempre alla ricerca del «nonno, nonnino, nonnetto»; di Luca Lazzareschi, un Gloster di rara fragile umanità, combattuto tra l’amore di padre e la devozione per il re; di Federica Di Martino, implacabile nella sua crudeltà di figlia spietata, mai un accenno di cedimento al bene, così come invece accade per sua sorella Regan, Silvia Siravo. Bene tutti gli altri, anche se – occorre dirlo – tra i giovani si avverte un naturale desiderio emulativo, sì che a volte sembra di ritrovare la stessa esuberanza del maestro in diversi allievi. E non è l’età che fa la differenza!

Lavia ci avvertì del timore che nutriva per la riuscita dell’apertura di un uovo che rompendosi avrebbe scoperto due corone: ebbene, può star tranquillo, l’effetto – anche se un po’ vezzoso – è perfettamente riuscito. Tuttavia l’autentica rivelazione della serata è la scena di Alessandro Camera (ottimamente illuminata da Giuseppe Filipponio) : lo scheletro di un palcoscenico in disordine che fa rivivere la tragedia di Shakespeare quasi sotto forma di commedia, regala leggerezza teatrale alle sue origini leggendarie. (fn)
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Re Lear, di William Shakespeare. Traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari. Scene, Alessandro Camera. Costumi, Andrea Viotti. Luci, Giuseppe Filipponio. Musiche, Antonio Di Pofi. Con Gabriele Lavia (Lear), Luca Lazzareschi (Gloster), Mauro Mandolini (Kent), Andrea Nicolini (Il matto), Federica Di Martino (Goneril), Silvia Siravo (Regan), Eleonora Bernazza (Cordelia), Giuseppe Benvegna (Edgar), Ian Gualdani (Edmund), Jacopo Venturiero (Scozia), Giovanni Arezzo (Cornovaglia), Beatrice Ceccherini (Oswald), Gianluca Scaccia (Francia e un servo), Jacopo Carta (Borgogna e un servo), Lorenzo Volpe (un servo). Regia di Gabriele Lavia. Produzione: Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, Lac – Lugano Arte e Cultura. Al teatro Argentina, fino al 22 dicembre

Foto di scena: © Tommaso Le Pera (altre foto)

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