29 febbraio 2024

«Anna Cappelli» di Annibale Ruccello


28 febbraio 2024

La bambola di Giada, Ossia L’Ovvia naturalezza della follia

Diceva bene un regista e maestro d’accademia quando indicava nel monologo la forma di teatro più difficile da interpretare per un attore. Tutti pensano sia facile. Tutti ne elogiano la semplicità dell’allestimento. Tutti (gli interessati) ne esaltano i vantaggi economici. Eppure, quando sulla scena ci sono due, tre o quattro, dieci attori, ciascuno è sempre pronto a sorreggere l’altro, ad aiutarlo in caso di défaillance. Reggere la scena in solitaria è tutta un’altra prova. Occorre una preparazione e una concentrazione certamente non consuete. Sono pochissimi coloro che, davanti al pubblico, riescono a mantenere per un’ora di fila ritmi e toni di recitazione senza sbavature e senza cedimenti. Giada Prandi, caschetto biondo, viso incontaminato, sguardo innocente, è riuscita a tener testa alla galoppata trascritta da Annibale Ruccello per un personaggio apparentemente quieto e dal nome altrettanto morigerato: Anna Cappelli, impiegata al municipio di Latina.

28 febbraio 2024

«La zona d’interesse» di Jonathan Glazer

Nizza, cinema Rialto
24 febbraio 2024

LA CRUDELTÀ DISCRETA DELLA BORGHESIA

Candidato a cinque premi Oscar, il film di Glazer racconta il genocidio di Auschwitz al di là del muro

La tragedia che non si vede. Il dramma nascosto dietro il muro. Il genocidio commesso tra i rumori ovattati dalla barriera, tra gli spettri soffocati dal fumo ancora infuocato dei comignoli che sputano i vapori della morte senza esitazione. La zona d’interesse è un film a parte: si potrebbe dire anche che sia un altro film, un’altra storia che prescinde dal contesto per cui è stato scritto. Il suo fascino e la sua atroce crudeltà si nascondono sulla faccia storicamente più nascosta della medaglia, quella apparentemente pulita, mai sfiorata dal massacro nazista, mai inquadrata fino ad ora. La pellicola prende in parte spunto dall’omonimo romanzo (2014) di Martin Amis e traduce in immagini casalinghe la feroce quotidianità della famiglia di Rudolf Höss, il direttore del campo di concentramento di Auschwitz, la zona d’interesse. Rudolf abita con moglie e figli in una villa con giardino, piscina e orto al di là del muro, al di là del filo spinato. Al di là del male. E il regista ci mostra che al di qua, il male, è altrettanto spietato, anzi lo è di più.

22 febbraio 2024

«La rosa non ci ama» di Roberto Russo (recensione)


Roma, Teatro Lo Spazio
22 febbraio 2024

NEL CUORE DELLA NOTTE IL FIORE DELL’AMORE DIVENTÒ PUGNALE

Cloris Brosca e Gianni De Feo sono Maria d’Avalos e Carlo Gesualdo, vittima e carnefice di un rito che si ripete nel tempo

«I sicari mi fecero carne da macello», grida la Maria d’Avalos di Roberto Russo che, nella sua personalissima trascrizione della tragedia, fa incontrare i fantasmi dei due sposi, in un luogo poco definito, a notte fonda, in una terra desolata che forse è piazza San Domenico, o chissà. Sono trascorsi molti anni dalla notte del massacro (cfr. presentazione del 20 febbraio) nel sontuoso edificio del Duca di Torremaggiore. Dalle indicazioni suggerite dagli oggetti in scena e dal miscuglio dei costumi indossati dagli attori, è facile pensare che siamo in epoca contemporanea. Il Palazzo ora è intitolato al Principe di Sansevero. Anche lui naturalmente è già morto, e il famoso Cristo velato, adagiato nell’adiacente cappella, richiama ogni giorno torme di turisti che fra qualche ora giungeranno. La fragranza delle sfogliatelle di Scaturchio profuma la piazza già prima dell’alba, mentre Maria (una tormentata Cloris Brosca) è sempre lì, dopo oltre tre secoli, che si dispera in un affanno muto. Sul viso ancora la bellezza segnata dallo strazio.

20 febbraio 2024

«La rosa non ci ama» di Roberto Russo (presentazione)

Roma, Teatro Lo Spazio
dal 22 al 25 febbraio 2024

UNA TRAGICA STORIA D’AMORE DELLA NOBILISSIMA NAPOLI

Musicati dal Maestro Panatteri due madrigali di Torquato Tasso ritrovati a Madrid nel 2017

Il mestiere di giornalista mi obbliga a dare la precedenza alla notizia più imponente che riguarda La rosa non ci ama, spettacolo teatrale che debutta giovedì 22 (fino a domenica 25) allo Lo Spazio (ore 21) del quale il maestro Alessandro Panatteri ha composto le musiche. In effetti, la particolare novità storica, pur se ruba un po’ la scena al resto, merita (come si dice in gergo) l’apertura della Terza pagina che una volta era quella dedicata alla cultura. Due composizioni in versi di Torquato Tasso, ritrovate in una biblioteca di Madrid nel 2017, sono state musicate per l’occasione dal Panatteri.

18 febbraio 2024

«L’albergo dei poveri», Gor’kij/Popolizio

Roma, Teatro Argentina,
il 17 febbraio 2024 (fino al 3 marzo)

INCUTE SOGGEZIONE IL «MOSÈ» DI POPOLIZIO

Il terzo giorno resuscitò: il teatro naturalmente. Dopo la claudicante esperienza di giovedì alla Sala Umberto e l’altra disastrosa, venerdì al Quirino, sabato all’Argentina, finalmente, abbiamo assistito a una rappresentazione che ci ha regalato circa due ore di spettacolo di ottima fattura. L’idea di regia era rispettosa del testo; luci, scene, costumi e recitazione facevano parte di un disegno omogeneo; gli attori sapevano la parte a memoria, osservando tempi e intonazioni. Insomma, un teatro da Serie A. E se pure occorre fare qualche appunto, chiariamo subito che il livello è quello che si attiene rigorosamente all’antico codice dell’educazione teatrale.

17 febbraio 2024

«Assassinio nella cattedrale» con Moni Ovadia


Roma, Teatro Quirino
16 febbraio 2024

L’ASSASSINIO DI ELIOT

Quando nel 1935 T. S. Eliot, poeta, sentì la necessità di scrivere Assassinio nella cattedrale già studiava da anni profondamente la materia religiosa confrontandola, da erudito, con la storia, osservandone l’evoluzione dei fatti, da intellettuale, secondo i clamorosi cambiamenti politici che stavano avvenendo in tutta Europa. Italia e Germania erano già da tempo sotto lo schiaffo della dittatura, anche la Spagna a breve le avrebbe seguite, per non parlare dell’Unione Sovietica stretta nella morsa staliniana. Nel 1935, inoltre, furono emanate le Leggi di Norimberga e le Leggi raziali, insomma fu l’anno in cui Hitler stava organizzando il secondo conflitto mondiale.

16 febbraio 2024

«Buonanotte, mamma» di Marsha Norman

Mariangela D'Abbraccio e Marina Confalone

15 febbraio 2024 (fino al 25/2)

IL DRAMMA MANCATO DI UN SUICIDIO ANNUNCIATO

Il debutto italiano di Buonanotte, mamma fu un evento teatrale che difficilmente gli amanti delle grandi occasioni potranno dimenticare. Era il mese di luglio del 1984 quando Giovanni Arnone, eroico impresario (come soltanto una volta esistevano), per il Festival di Spoleto, organizzò in un’unica giornata due differenti allestimenti del testo di Marsha Norman: uno («‘Night, mother», in versione originale) diretto da Tom Moore, al Caio Melisso, con Anne Pitoniak e Kathy Bates e l’altro al Teatro Nuovo con Lina Volonghi e Giulia Lazzarini per la regia di Carlo Battistoni. Un duplice successo per l’autrice della commedia, da poco vincitrice dell’ambito Pulitzer. I racconti leggendari dell’epoca ricordano che in platea si distribuivano fazzoletti di carta, tante furono le lacrime di commozione versate dagli spettatori. Lacrime che coinvolsero soprattutto la Norman, allora trentacinquenne, la quale per l’occasione si era preparata un discorso ufficiale in italiano, ma l’emozione tra il pubblico, al termine della rappresentazione nostrana, fu talmente coinvolgente che proprio lei preferì esprimersi in inglese approfittando del filtro emotivo di un interprete.

15 febbraio 2024

«Quando eravamo...», Onyx Editrice 2011


Interludio in versi, Fausto Nicolini
Immagini Giuseppe Patroni Griffi
con una lettera di Raffaele La Capria
e un intervento di Mario Lunetta
Onyx Editrice, 2011
Collana Fotofonemi
diretta da Giuliana Laportella


Patroni Griffi in versione fotografo: sono suoi i dieci scatti (l’undicesimo lo ritrae) che l’autore del libro ha scelto per accompagnare le strofe che compongono Quando eravano... «Un’oasi felice alla quale approdare grazie ai versi, grazie a una passione viscerale e densa di dolcezza» (Mario Lunetta)

*

Quando eravamo froci
non sapevamo nemmeno di essere gay
e non avevamo bisogno dei vestiti della festa
per tenere alta la testa nel giorno degli dèi

12 febbraio 2024

«L’uomo sottile» con Massimo Reale

Massimo Reale in «L’uomo sottile»

Ariccia, Teatro Bernini, 11 febbraio 2024

LE CONFESSIONI DI ANDREA, FANTINO DEL PALIO DI SIENA

L’avventura comincia a piazza San Giovanni, dove un ristretto gruppo di amici del teatro si è dato appuntamento per raggiungere Ariccia. L’unica nota stonata è il clima uggioso e umido: ci fosse stato il sole, probabilmente ci sarebbe scappato anche un pranzo, o una cena, in piacevole compagnia. Soltanto a metà percorso ci si interroga sulla rappresentazione che stiamo andando a vedere. La domanda, lecita, ne fa nascere altre. Se non sappiamo bene cosa ci spinge su per i Castelli, qual è il motivo reale che ci fa muovere insieme? Partiamo solo per il piacere di fare una breve scampagnata? Non credo: la pioggia è un forte deterrente. La verità, secondo me, è che – malgrado le tante delusioni – ci mettiamo in cammino fiduciosi che il fascino teatrale in qualche modo ripagherà la nostra indistruttibile fede e la caparbia curiosità.

10 febbraio 2024

«L’ammazzo col gas» di Roberto D’Alessandro

Roma, Teatro degli Audaci
9 febbraio 2024

SI PUÒ UCCIDERE LA MOGLIE IN SCENA?

Non so se Roberto D’Alessandro si sia reso conto che il suo sfizioso tentativo di asfissiare col gas una moglie, o tante mogli, sia riuscito, in parte, a resuscitare quel genere di teatro che da molti anni, a Roma, era sparito, morto, sotterrato da tanta brutta televisione che anni fa ne aveva usurpato l’impronta, il copyright, per poi ridurlo a semplice esibizione di barzellette. Stiamo parlando del cabaret: quel tipo di spettacolo che – grazie alla partecipazione del pubblico – unisce il divertimento con la cronaca avversa al buoncostume e con quelle calamità quotidiane con le quali ciascuno di noi è costretto a convivere.

09 febbraio 2024

«Otello» di Shakespeare al femminile

Roma, Teatro Quirino
8 febbraio 2024

LE DONNE DI BARACCO GIOCANO ALLA TRAGEDIA DEL MORO

«Io non sono ciò che sono», dice Iago nella prima scena. La frase potrebbe essere spiegata con «Non sono buono come sembro, non amo il mio generale come potrebbe apparire dal mio atteggiamento». Iago, poi, dichiarerà apertamente che lui odia Otello. Per Andrea Baracco – che ha portato in scena l’originale allestimento di una delle più famose tragedie di William Shakespeare – «Io non sono ciò che sono» è anche un’indicazione registica che ha sollecitato una nuova chiave di lettura del testo. Se il personaggio Iago, infatti, non è quel che è, ossia un uomo, potrebbe essere una donna? Forse sì. E se tutto l’odio creato dall’apparente carezzevole fedeltà dell’alfiere del Moro non fosse in realtà un vero odio, ma soltanto un gioco teatrale, questo gioco come si potrebbe renderlo chiaro ed evidente?

08 febbraio 2024

«Roma Banco 24» di G. Silvestri

Roma, Teatro de’ Servi
7 febbraio 2024

IL GRIDO DI RABBIA DI LOREDANA

Commedia assai realistica quella scritta da Gabriella Silvestri. Un dialogo che denuncia uno spaccato cruciale nell’inferno della nostra società bassa, tra Loredana, sulla cinquantina, e sua figlia Karida, la sera prima del suo diciassettesimo compleanno. Il confronto si svolge all’interno di un appartamento di borgata, a Roma. C’è una gran confusione in sala. Oltre al divano e al tavolo da pranzo, c’è uno stendino aperto con i panni stesi e l’asse da stiro pronto all’uso. È il disordine tipico di chi s’affanna con il lavoro e non ha tempo di badare alla casa. Karida, al cellulare, organizza con qualcuno la festa per il giorno successivo. È abbastanza spensierata, gioiosa, forse innamorata; certamente lontana dal peso dei pensieri che si porta dietro sua madre.

07 febbraio 2024

«Hotel Paradiso», di e con i Familie Flöz

Roma, Teatro Sala Umberto
6 febbraio 2024

EVVIVA, LE MASCHERE DEL BUONUMORE

Lunga vita al teatro e al suo linguaggio se, in un momento storico come questo, dove regna la più caparbia e deliberata incomprensione tra i popoli confinanti e nelle singole case, il gruppo tedesco Familie Flöz, dal palcoscenico della Sala Umberto (purtroppo soltanto fino a domenica), lancia un forte messaggio di comprensione, d’intesa e di armonia. Basta davvero poco per capirsi, per spiegarsi l’un l’altro; non occorre neanche parlare, visto che loro prediligono un teatro di figura, cioè senza parola; e forse non c’è bisogno nemmeno di un’espressione mobile del viso, visto che preferiscono ricoprire il volto con le maschere. C’è troppo poco teatro a questo mondo e molta confusione che genera discordia. Invece, come accadeva nei lontani cortometraggi delle vecchie comiche di Larry Semon, di Charlot, di Stanlio e Ollio, è appena sufficiente una piccola storiella e tanta fantasia per riscoprire, nel silenzio della parola, il linguaggio dell’umorismo, quello che tutti riconoscono quale espressione di pace universale.

Il modo di far spettacolo dei Familie Flöz è essenzialmente quello di creare in scena situazioni paradossali o grottesche che un approfondito studio sulla gestualità del corpo e un’attenta analisi dei tempi di reazione di ciascun attore tramutano in irresistibili gag comiche. Più che portare avanti la storia di un canovaccio, il lavoro degli autori (sono sette: Sebastian Kautz, Anna Kistel, Thomas Rascher, Frederik Rohn, Hajo Schüler, Michael Vogel, Nicolas Witte) si concentra sulle possibilità fisiche dei personaggi. Il processo di sperimentazione, alla fine, viene realizzato tramite il linguaggio delle maschere che amplificano sentimenti e imbarazzi coinvolgendo maggiormente il pubblico. Un prodigio teatrale che affonda le radici in tempi molto antichi, ma che, in questa rielaborazione, risente soprattutto delle influenze della nostra Commedia dell’arte. Proprio come quelle del XVI secolo, anche le maschere realizzate da Thomas Rascher e Hajo Schüler hanno la necessità di dover interagire col pubblico: che sia uno sguardo, un gesto, un sostegno morale. Le maschere vivono solo davanti al pubblico (non sono né fissate nell’eternità di un libro, come i personaggi; e non possono neanche godere della momentanea libertà dell’attore): non a caso qualcuno disse che la maschera, per il materiale drammatico che contiene, è lo specchio del pubblico.

Gli attori che danno vita a Hotel Paradiso sono solo quattro (Marina Rodriguez Llorente, Frederik Rohn, Nicolas Witte, Sebastian Kautz), ma i personaggi che si alternano sul palco sono almeno una dozzina, forse più. Tutti partecipano alla strana vitalità di un albergo di montagna sul quale al principio brillano quattro stelle, anche se le apparenze sono ben diverse. In alcuni momenti l’atmosfera nella hall sembra ricordare quella di Arsenico e vecchi merletti, ma soffermarsi sulla trama, onestamente non avrebbe senso. Tuttavia la vicenda, certamente desueta, che si svolge tra le vette delle Alpi, all’improvviso si macchia di noir: non mancano i cadaveri, i ladri, i dispetti e i grandi amori.

Ogni tragedia che si consuma è arricchita da virtuosismi comici, talvolta istrionici, ma sempre all’insegna dell’armonia e della leggerezza, come il poetico ascensore della scena, che porta dritto in paradiso. Sia il personale dell’hotel (a gestione familiare) che i clienti vengono investiti da una valanga di sentimenti, tutti selezionati dalla lente del paradosso: solo così l’eterno contrasto tra odio e amore diventa materia per sorridere. Soprattutto, tra i quattro protagonisti, l’umorismo è costante, e domina il desiderio di divertire e la consapevolezza che, anche senza parlare, il pubblico di tutto il mondo è pronto a recepire il linguaggio del sorriso, unico messaggero del buonumore collettivo. (fn)
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Hotel Paradiso, uno spettacolo dei Familie Flöz, di Sebastian Kautz, Anna Kistel, Thomas Rascher, Frederik Rohn, Hajo Schüler, Michael Vogel, Nicolas Witte. Con Marina Rodriguez Llorente, Frederik Rohn, Nicolas Witte, Sebastian Kautz. Maschere, Thomas Rascher e Hajo Schüler. Scenografia, Michael Ottopal.  Costumi, Eliseu R. Weide. Musiche, Dirk Schröder. Regia, Michael Vogel. Una produzione Familie Flöz in collaborazione con Theatherhaus Stuttgart e Theater Duisburg

Foto © Michael Vogel

Pubblicato anche su Quarta Parete il 7/2/24

05 febbraio 2024

«Palindroma» allo Spazio Recherche

Roma, Spazio Recherche,
4 febbraio 2024

LE SONORITÀ PROUSTIANE DI LUCA LONGOBARDI

In un angolo nascosto della Capitale, accanto alle magnifiche Mura Alessandrine, Vittoria Faro ci accoglie nella sua Recherche: uno spazio alternativo abbigliato al soffitto di bianchi tendaggi che formano onde, sotto le quali una soffusa luminosità e molte candele spostano all’improvviso la percezione caotica della città mille miglia lontana. Nella grande sala che ospita le performance salta all’occhio uno stuolo di materassi e cuscini distesi in terra, nelle prime file; più dietro le sedie disposte in ordine; mezzi manichini da ciel piovuti; una sagoma umana in fil di ferro che s’arrampica a un traliccio; e un vecchio pianoforte, che pure ha una parte in questa storia.

04 febbraio 2024

Una Locandiera al maschile


Roma, Teatro Ugo Betti
3 febbraio 2024
 

«IL MIRANDOLINA» DI LUCA GUERINI PORTA I PANTALONI (SBRINDELLATI)


La più famosa opera di Carlo Goldoni, nel corso di circa tre secoli (è del 1753), è stata adattata, riadattata, rinnovata, rivoluzionata, violentata, e forse qualcuno ha avuto anche l’impudenza di maltrattarla. Fu sempre lui, il solito Luchino Visconti, nel 1952 a togliere definitivamente alla Locandiera quella patina di manierismo ottocentesco dove s’era incrostata per duecento anni. Ispiratosi ai colori piatti, senza ombre, di Morandi, con un colpo di spugna cancellò i ridicoli salottini dorati e le pulciose parrucche stoppose, regalando moderna dignità all’antica nobiltà e rendendo marchesi, conti e camerieri uomini egualmente e democraticamente eleganti, privi di ogni finzione ridicola e mossettine inverosimili alle quali era difficile credere. Dopo di lui anche Strehler seguì la stessa direzione mettendo in scena la Trilogia della Villeggiatura.

Da allora non si è mai più tornati indietro. Ogni rappresentazione goldoniana ha sempre mantenuto un’impronta stilistica che affonda le radici nel Novecento. Verso la fine dei pericolosi anni Sessanta alcune sperimentazioni furono fatte anche a danno di Mirandolina, di Don Marzio, di Lunardo e altri protagonisti dell’opera del maggior commediografo italiano.

03 febbraio 2024

«Pupa e Orlando» di Giuseppe Fava

Roma, Teatro Lo Spazio
2 febbraio 2024

OGNI FAVOLA È UN GIOCO, PER L’ESTRO TEATRALE

Il personaggio di Pupa dice: «Morirò come una cosa inutile, ma quando morirò vorrei che ci fosse qualcuno accanto a me». E poi ancora si domanda: «Quanto vale la vita di un uomo?» Giuseppe Fava, autore del testo, era un giornalista, fondatore e direttore de Il Siciliano, giornale antimafia. Fu ucciso quarant’anni fa, il 5 gennaio 1984 a Catania. Cinque proiettili lo colpirono alla nuca. L’omicidio fu immediatamente catalogato come delitto d’onore, perché «a Catania – disse il sindaco – la mafia non c’è». In Pupa e Orlando, spettacolo visto al teatro Lo Spazio di Roma, la mafia non c’è, non si vede, non se ne sente l’eco, eppure le due frasi, pronunciate dalla voce maschile di Pupa, suonano come una campana a morto in ricordo dell’autore che fu un grande giornalista mai dimenticato.

«Bossolo» di Antonio Palumbo

Fasano (Br), Teatro Kennedy
30 gennaio 2024

TOTÒ ONNIS È MADRE CUCINIERA E SUO FIGLIO «CORONATO»

È domenica mattina e Michele ozia a letto, quando la madre dalla cucina lo chiama con insistenza e costanza, la stessa che adopera per rimescolare la salsa del ragù che sta peppiando in pentola. Un gesto tanto monotono quanto ieratico che addensa la calura agostana di succulenti odori: la cucchiarella che accarezza il sugo con la dolcezza di un rammarico rappresenta il tempo e la devozione che una mamma del nostro Sud dedica alla crescita del figlio, alla sua preparazione di uomo. Eppure la mamma di Michele, in cuor suo, sente che qualcosa non sta andando per il verso giusto, che quel figlio dovrebbe correre alla messa, che si dovrebbe fidanzare (che è diverso che innamorarsi) per allontanare le cattive compagnie sempre in agguato, ma poi anche lei s’attarda accanto al ragù e ai suoi pensieri di madre, di moglie e di donna che fu, mentre Michele attende la fine del dolce tempo del ragù per poi perdersi in un mondo che lo traghetterà nelle amarezze della malavita di Bossolo.

Bossolo è il proiettile dello sparo che segna l’inizio della parte drammatica del monologo, scritto e diretto da Antonio Palumbo, ma potrebbe anche essere – anzi lo è – il vezzeggiativo di boss, proprio quello che userebbe la Mamma per evitare di riflettere seriamente sulla vita sbagliata intrapresa dal suo «bravo ragazzo» e sui pericoli che seguiranno. Bossolo, sul manifesto dello spettacolo, è anche il profilo di un figlio santificato da una «sacra corona» illuminata, visto che siamo al confine tra il Salento e la Terra di Bari, nel cuore più caldo di un’antica dignità malavitosa.

Il testo di Palumbo è composto da due brevi monologhi: quello di una mamma, che si svolge ipoteticamente negli anni Sessanta (sono molti i riferimenti epocali: dalla canzone di Bruno Martino a James Dean) e quello di Michele, il boss che, anni dopo, si racconta con fredda autocritica sapendo che ormai è giunto al capolinea della sua corsa criminale, e sente che è arrivato il momento di abbandonare lo scettro: un gesto crudele che equivale a dover affrontare la resa. Tirare le somme di un’esistenza dedicata alla criminalità è per lui un atto di saggezza, certamente spietato ma inevitabile. Il dramma, nelle parole aspre di Michele, si apre sulla magra scelta che offre l’epilogo: ergastolo o morte? Il tema sollevato – l’interrogativo cruciale – non è certamente nuovo per chi conosce i criteri delle ascese e delle rovine dei boss mafiosi e Palumbo lo ripropone come momento di riflessione che il protagonista ha il coraggio di confessare soltanto all’ultima vittima, ormai già cadavere.

Nelle parole che Palumbo fa ripetere a Michele e, prima ancora a sua madre, c’è tanta anima del nostro pigro Sud, cotto dal sole che ne rallenta il tempo, addormentato negli eterni meriggi della grande stagione: quell’estate annunciata dal canto di Bruno Martino che apre lo spettacolo. Un’estate che Michele ora odia, obbligato com’è a vivere nascosto alla luce di una lampadina, con la pistola in tasca per difendersi dall’agguato improvviso, dalla ritorsione, dalla vendetta. La sacralità del ragù ha ceduto il posto al puzzo del denaro, al sapore marcio del potere: i doveri della domenica dedicata alla messa e ai sorrisi della festività sono soltanto un antico ricordo.

Interprete di prestigio dei due personaggi, diversissimi tra loro, è Totò Onnis, attore già avvezzo nei ruoli en travestì (nel 2016 per il cinema interpretò con successo il personaggio di un pittoresco omosessuale in «Varichina - La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis», regia dello stesso Palumbo insieme con Mariangela Barbarente). Onnis, con maestria ed esperienza, regala alla figura materna, di chiare origini baresi, un atteggiamento poetico e distratto (tant’è fervido l’impegno rivolto al ragù) e al contempo d’intrinseca protezione nei riguardi del figlio, il cui avvenire, per lei, non può che essere roseo. Ma la donna non sa che quando «tornerà un altro inverno cadranno mille petali di rose». E la scena di Michele divenuto boss si apre in pieno inverno e la voce di Onnis, fino a poco prima scintillante e divertente, colorita e beffarda, all’improvviso s’incupisce, ne trasforma lo sguardo che diventa torvo, e la maschera, prima gioiosa, si macchia di un’angoscia impietosa, senza speranza.

Nel complesso lo spettacolo gode di un buon momento in cui si ride e si sorride piacevolmente, con leggerezza e con un pizzico di malinconia, per poi affondare in una realtà più cruda e cupa, con un coup de theatre che al termine svela la concretezza del dramma. La regia giustamente è sempre concentrata sulla recitazione dell’attore, sulla parola esplicativa, sulla smorfia che indica uno stato d’animo, a discapito di una scenografia che invece si disperde nella vaghezza del palcoscenico, luogo dove, a volte, il buio del vuoto è più elegante di tanti abbellimenti che la trama non contiene. Soltanto il finale risente di una confusione che non chiarisce adeguatamente la chiusura della vicenda che Lo Russo Angelo Michele affronta con il disperato sorriso di chi ha imparato a piangere. (fn)
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Bossolo scritto e diretto da Antonio Palumbo; con Totò Onnis (con la partecipazione mortuaria di Pasquale Fantasia. Scene e costumi di Angela Varvara; disegno luci, Nicola Segreto

Foto © Fonte Silvia Meo

Pubblicato anche su Quarta Parete il 2/2/24

02 febbraio 2024

«Farà giorno», regia di Piero Maccarinelli

Roma, Teatro Parioli
1° febbraio 2024

TRE SIMBOLI DELL’ITALIA CHE SI RIBELLANO ALL’ITALIA

Tre generazioni a confronto, tre simboli dell’Italia che si ribellano all’Italia stessa, alla sua storia, alle sue contraddizioni sociali, alle sue debolezze politiche. C’è molta speranza nel testo di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi, qualcosa forse rischiarerà in questo agognato giorno, ma c’è anche tanto rammarico per le occasioni perse, per le idee caparbie dei giovani di ogni epoca che hanno fallito negli intenti. Piero Maccarinelli riporta in scena Farà giorno – che non moltissimi anni fa ebbe un gran successo con Gianrico Tedeschi e Marianella Laszlo (a chiunque farà piacere ricordarli) – con una compagnia di prestigio anche stavolta. Antonello Fassari, il partigiano, Alvia Reale, la terrorista, e Alberto Onofrietti (già presenta nella scorsa edizione) nel ruolo del borgataro romano che s’atteggia a fascistello.

01 febbraio 2024

La querelle del Teatro di Roma

Francesco Siciliano, presidente della Fondazione

UNO STIPENDIO È TROPPO, DUE VANNO BENE!

Intanto Onofrio Cutaia e Paola Macchi declinano l’invito del Campidoglio: per ora un uomo solo al comando

L’ultima dichiarazione di Francesco Siciliano, presidente della Fondazione Teatro di Roma, lascia intendere che il clima in Via dei Barbieri si stia rasserenando e che tutte le proteste e le minacce dei giorni scorsi stiano raggiungendo il giusto epilogo: «L’approvazione del bilancio – ha detto – mette fine a una fase difficile e aspra. Grazie all’accordo raggiunto tra i soci della Fondazione e al percorso di modifica dello statuto si arriverà a una nuova governance operativa con la nomina di un direttore generale con uno spiccato profilo manageriale, accanto a quella del direttore artistico». Una nave, quindi, guidata da due ammiragli. Ipotesi che non era nelle previsioni dell’ancora giovanissima Fondazione del Teatro di Roma che, da quando è andata via Giovanna Marinelli, non fa altro che raccogliere brutte figure.

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