31 ottobre 2022

Un ospite di riguardo: Lelio Luttazzi (1991)


LA SUA ROMANTICA E SPIETATA «OBLOMOVERIE»

Mentre all’interno della Sala Sinopoli dell’Auditorium l’applauso s’innalza con una standing ovation al protagonista del documentario che Giorgio Verdelli ha dedicato al più grande pianista jazz che l’Italia abbia avuto, l’emozione di chi scrive vola tra i ricordi di un indimenticabile luglio del 1991. Una stagione balneare che s’aprì con una visita inaspettata: «Laeluis Lutatius cum Roxana».

All’epoca – mi si perdoni la prima persona – avevo 25 anni e potevo godere di lunghe vacanze al mare, che la sospensione dell’attività teatrale offriva a quelle compagnie che raramente frequentavano le piazze estive. La meta, ormai da qualche anno, era la solita: una invidiabile terrazza che dalla costa settentrionale della Corsica guarda a distanza le sagome dell’isola d’Elba e di Capraia. Con i primi caldi il piccolo borgo di pescatori tuttora resta poco frequentato, se non dai più affezionati villeggianti. In quel periodo, trentuno anni fa, una coppia di amici (dei miei genitori) prendeva lì una casetta in affitto per il mese di luglio; si chiamavano Mario e Mary. Andavo spesso a pesca di saraghi sul mio gozzo insieme con Mario. Una mattina, poco dopo l’alba, appena giunti in mare aperto, Mario mi informò di una novità: «Mi ha telefonato Lelio, avrebbe intenzione di raggiungermi qui con la moglie. Vengono in motoscafo per rimanere qualche giorno: tu sai meglio di me dove potrebbero alloggiare».

29 ottobre 2022

«Amleto die Fortinbrascmaschine» di Roberto Latini


Roma, Teatro Basilica
28 ottobre 2022

LA VENDETTA SI RIPETE PER IL PRINCIPE DI DANIMARCA

«Siamo stati tutti uccisi per vendetta», ossia siamo un popolo di morti a cui la vita ha riservato il solo valore della vendetta. Lo erano all’epoca quei valorosi principi e lo siamo ora noi, meno valorosi e ugualmente (se non di più) arrabbiati e sempre pronti a sferrare il colpo: che sia quello sparato con la pistola nelle faide di malavita, o il fendente di una lama che uccide al centro commerciale, cediamo inesorabilmente il passo all’impeto del germe vendicativo.

E chissà che non rientri nella sfera delle vendette anche questo nuovo esercizio intellettuale che ruota intorno al principe di Danimarca: una nemesi giocata ai danni del tedesco Heiner Müller, il quale nel 1977 scrisse per il teatro «Hamletmachine». Come Fortebraccio, principe di Norvegia, il cui padre è stato ucciso dal padre di Amleto, vuole attaccare la Danimarca per vendicare la morte del genitore, così Roberto Latini riscrive con la punta di una spada affilata la trascrizione dall’Amleto shakespeariano già osata dal Müller. Si sa, anche gli scrittori non disdegnano la vendetta, ma per fortuna usano la penna che pure è un’arma, ma tutt’altro che cruenta.

26 ottobre 2022

«Certi di esistere» di Alessandro Benvenuti


Roma, Teatro Vittoria
25 ottobre 2022

«IL TEATRO VA AIUTATO»

Un amico colto e sapiente, che conta qualche primavera più del sottoscritto, al termine di Certi di esistere, scritto e diretto da Alessandro Benvenuti, in scena al teatro Vittoria, ha sospirato profondamente prima di esprimere il suo pensiero da ultra-collaudato giornalista dello spettacolo: «Il teatro va aiutato». Evidentemente anche lui sentiva il peso del forte imbarazzo che opprimeva le nostre riflessioni a caldo.

24 ottobre 2022

«Centomila, uno, nessuno» di Giuseppe Argirò

23 ottobre 2022

SIGNORI, VI PRESENTO LA VOSTRA COSCIENZA

Uscendo dal teatro Arcobaleno di via Redi, dopo aver assistito alla Curiosa storia di Luigi Pirandello, il primo istintivo pensiero è stato quello di imboccare via Nomentana, voltare a destra e, comodamente a piedi, in appena cinque minuti, risalire via Bosio, sempre sulla destra, per raggiungere Pirandello a casa sua. Non saprei dire come mi avrebbe accolto: se come un suo ammiratore, un amico o come un semplice seccatore, o magari come personaggio. Io invece avrei voluto confessargli che, grazie a lui e con lui – con le sue parole, voglio dire – ci sente meno soli, si avverte vivo il senso dell’intelligenza, e soprattutto si ha l’impressione di ritrovarsi più vicino alla gente in strada, quella che ormai troppo spesso, oppressi come siamo dal caotico mal di vivere, non riusciamo più a sopportare. E avrei voluto dirgli, anche, che dopo tanti anni di confidenziale frequentazione letteraria, mi sono convinto della sua sacra missione su questa terra: con i suoi pirandellismi, infatti, egli ci predispone, ogni volta lo si ascolti, alla ragionevole comprensione dei nostri simili. Un miracolo che riuscì, in parte, soltanto a Gesù Cristo.

E se lui, fine narratore dell’umanità moderna, ha bisogno d’attaccarsi alla vita degli altri per dare consistenza alla sua sensibilità, io, essere comune, sento la necessità di attaccarmi alle sue parole per comprendere prima di tutto me stesso: i miei errori, le mie colpe, le mie vergogne, le mie immoralità e tutto ciò che mi condiziona l’esistenza. Però esigo che sia lui a svelare me a me stesso, con il suo fine ragionamento da letterato (e non da medico dei pazzi), e con il suo linguaggio elegante, dolce e convincente, anche quando è severo e spietato e mi ricorda che la verità è una prigione, sia quando la si ascolta, ma soprattutto quando la si dice: infatti, ammette – con il candore di un bambino – che ci sono cose che non si possono dire, perché è facile perdersi nella banalità del male quando non si ha la coscienza di sostenerle. Oppure quando, per un caso sciaguratissimo, egli mi sorprende all’improvviso in uno di quegli atti che, appunto, non si possono dire, a cui io resto agganciato e sospeso finché la mia stessa coscienza non si redimi per davvero.

Il testo costruito da Giuseppe Argirò e riproposto da Giuseppe Pambieri è, nonostante un involontario «imbarazzo del leggio», essenzialmente questo: un grande omaggio al nostro drammaturgo per eccellenza; è il racconto della vita di un’anima a cui piaceva visitare l’indole, il carattere e la mente di ciascuno di noi; è l’epopea in nuce di un’umanità costantemente allo sbando tra ipocrisia e follia, e tra finta magnanimità e autentica meschinità. Ascoltando il racconto di Pambieri ci si accorge che Pirandello siamo noi. Tutti noi, ciascuno a suo modo.

Per carità, il riferimento al leggio non vuole essere una critica negativa allo spettacolo, anzi, addirittura se ne intuisce la necessità della presenza di un libro che parli, e si comprende pure che quel libro è Pirandello, il quale amabilmente chiacchiera delle sue cose che sono le nostre cose; e non è, quel libro, uno dei tanti personaggi accorso lì per rivivere il suo dramma da rappresentare sulla scena. Tuttavia, proprio per l’interprete – un attore come Pambieri abituato a portare la sua voce al pubblico – un leggio posto tra sé e la platea lo obbliga a restare appartato, distante, separato, un po’ nascosto e con lo sguardo costantemente rivolto verso il basso, ad occhi chini; tanto che a un certo punto mi sono concesso l’impudenza di socchiudere i miei per estraniarmi dalla realtà che mi circondava e poter godere maggiormente del linguaggio di un maestro della meravigliosa lingua italiana.

Sì, la lingua che Pirandello costruisce per sé e per le sue creature è accattivante, seduttrice, ammaliatrice. Peccato che in platea non ci fossero giovani ad ascoltare come si parla l’italiano, come lo si potrebbe usare, con le sue possibilità, la sua poesia e la sua musicalità: quei giovani che oggi masticano una lingua tutta loro, attraverso un aggeggio elettronico che brucia i tempi del pensiero (l’arma del raisonneur!), e non so quanto questo aggeggio possa illuminare d’immenso le nostre vite, come invece è riuscito a fare Pirandello che ha acceso in ciascuno di noi un faro sulle coscienze di tutti, rappresentandole – una e centomila – su di un palcoscenico davanti ai nostri occhi. Quei giovani, purtroppo, mancavano all’appello. (fn)
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Centomila, uno, nessuno. La curiosa storia di Luigi Pirandello, scritto e diretto da Giuseppe Argirò; con Giuseppe Pambieri

Pubblicato anche su Quarta Parete il 24/10/22

23 ottobre 2022

«Favola» di Giorgia Cerruti


Roma, Teatro Basilica
22 ottobre 2022

IL VIAGGIO NELLA MEMORIA DI G.

Si scrive «Favola», si legge incubo. Ma è un incubo affascinante che ha le sue motivazioni e le sue giustificazioni. G e D, i due personaggi di questa tragedia da camera, come è stata definita, vivono rinchiusi in una stanza: insieme formano una coppia, e per oltre un’ora sembrano accordare perennemente i loro strumenti per un duetto che riusciranno a suonare soltanto negli ultimi cinque minuti di spettacolo, quando finalmente nel labirinto del dramma tutto si dipana e si chiarisce. Prima che ciò accada noi spettatori fatichiamo a seguire l’armonia del racconto (perché, in effetti, non c’è), spesso ci perdiamo nei meandri della pioggia di note che cascano disordinate. Improvvisamente, però, si intuisce che l’autore, Fabrizio Sinisi, ci sta abilmente conducendo lungo un tortuoso percorso nella memoria di G: una memoria scomposta, tutta da ricostruire.

Dalla paginetta di note scritte per lo spettacolo da Giorgia Cerruti, ideatrice del testo, regista e attrice (bravissima), si evince che la tragedia è tratta da una storia vera, come si dice spesso nel linguaggio cinematografico; e forse questo è il motivo per il quale la sua recitazione contiene una verità che artiglia immediatamente l’ascoltatore. «Il soggetto – continua la nota – è un libero richiamo al “Calderòn” di Pier Paolo Pasolini», che è ispirato a «La vita è sogno» del secentesco drammaturgo spagnolo. Eppure, al di là del riferimento alla necessità dell’uomo di sognare, non si possono azzardare altri confronti. «Favola» gode di una sua indipendenza drammaturgica matura e profonda.

Mentre G è colei che, perduta la memoria, è alla ricerca di se stessa e del suo passato, D, cioè lui (il convincente Davide Giglio), è un personaggio dalla doppia personalità. Il primo teatrale: il marito borghese e affettuoso che tenta di guarire la mente della moglie ferita da un trauma, e quindi le regala dei fiori, l’aiuta a ricordare, la stimola dolcemente e con pazienza cantandole perfino la bella canzoncina. Il secondo metateatrale: un autentico carnefice, una sorta di Cotrone (ultimo protagonista pirandelliano), il quale non si fa scrupoli di mostrare l’intima tragedia della sua donna davanti al pubblico, sfruttando tale tragedia e la di lei vaghezza per racimolare qualche soldo. Insomma, D si occupa dell’altra faccia della prostituzione, e con impudenza l’ammette: «Ripercorriamo in pubblico le fasi del nostro dolore». Lui, il marito che da borghese è tutto smorfie e moine, è pronto a trasformarsi in lenone, dichiarando per di più che tutta quella confusione che G aveva vissuto «non era sogno, ma un’altra vita». Più che Freud, più che Pasolini o Calderon, in teatro c’è sempre lui, il solito Pirandello che pone la finzione davanti allo specchio dove si riflette la realtà. Sì, perché viene anche forte il sospetto che l’intera tragedia di G sia stata causata, in un’altra vita, appunto, proprio dal viscido D, il piccolo borghese che in sogno si presenta come il re della favola bella.

Sul palco, i protagonisti ripercorrono ogni giorno le favole del proprio dolore, attraverso le immagini che si proiettano su uno schermo. Sono le visioni sognate dallo smarrimento mentale di G, quindi è ovvio che siano poco esplicative e affatto chiarificatrici, oltre che piatte e «meccaniche». Poiché la recitazione dei due protagonisti, invece, è viva, tenace, affiatata, credibile e molto coinvolgente, quelle immagini, poste in secondo piano, diventano superflue perché il pubblico segue le emozioni direttamente dagli attori e non dalle proiezioni. Accade quindi un fenomeno contrario a quel forse era nelle intenzioni della regia. E siccome emozioni e applausi non mancano, speriamo che lo spettacolo possa replicarsi a Roma anche in «futuro… sei lettere!», dice G. quando comincia a capire che il passato non torna. (fn)
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Favola di Fabrizio Sinisi, con Giorgia Cerruti e Davide Giglio. Regia di Giorgia Cerruti

Pubblicato anche su Quarta Parete il 23/10/22

18 ottobre 2022

«Testimony», di Simon Bovey

I protagonisti di Testimony

Roma, Teatro Belli,
20 ottobre 2022

BOVEY PUNTA IL DITO SULL’ABUSO DI POTERE

Al Teatro Belli di Trastevere ha preso il via Trend, nuove frontiere della scena britannica, rassegna a cura di Rodolfo di Giammarco. Apre la XXI edizione Testimony, di Simon Bovey, drammaturgo e sceneggiatore inglese nato nel 1960: vien da pensare che l’autore abbia scritto, per dar voce a una ribellione collettiva, un dramma del quale egli stesso sia stato, in veste di comune cittadino, testimone senza diritto di parola. Esattamente come molti di noi (italiani) lo siamo stati quando simili fatti di cronaca sono avvenuti sul nostro territorio: vedi il caso Cucchi a Roma o il caso Magherini a Firenze. In teoria si dovrebbe aver tutti massima fiducia nelle forze dell’ordine, nelle autorità, invece, succede che increduli e inermi assistiamo alle vessazioni di chi ci dovrebbe proteggere. Bovey, infatti, punta il dito sul consueto abuso di potere da parte di chi ne detiene il controllo, e sulla condizione di «eterno colpevole» di colui che è già caduto in errore nei confronti della legge, senza possibilità di redenzione.

«Un archivio fotografico per il teatro» di Paola Bertolone

Roma, Teatro Quirino
17 ottobre 2022

TOMMASO LE PERA, MEMORIA STORICA DEL PALCOSCENICO

Luchino Visconti amava far teatro perché, tra i tanti motivi, era convinto che la creazione in palcoscenico corrispondesse a quei canoni artistici di cui egli era diretto discendente culturale: «Tutta l’arte è completamente inutile», sosteneva, infatti, Oscar Wilde; e ispirandosi ai più famosi versi di Malherbe, Visconti scrive che il teatro deve rappresentare tanto la perfezione quanto la caducità «delle più belle cose che nascono e muoiono, avendo vissuto l’espace d’un matin, que vivent les roses», lo spazio di un mattino, quello che vivono le rose. Non a caso per secoli l’arte più completa dell’universo s’è fatta, soprattutto in Italia, pensando fosse ormai tradizione trascriverla nel vento o nell’acqua che fugge, per dirla con Catullo; fino a quando, un giorno di qualche anno fa, Tommaso Le Pera si accorge che la sua riscrittura storica del teatro italiano degli ultimi 50 anni non è stata né spolverata dal vento né cancellata dall’acqua, ma è lì davanti ai suoi occhi, e che l’autore di cotanta fatica è proprio lui che con la sua macchina fotografica ha conservato viva la memoria di migliaia di spettacoli.

15 ottobre 2022

«Il grande Grabski» di Vanacore-Rinaldi


Roma, Teatro 7 Off
14 ottobre 2022

GRABSKI, IL GRANDE CIALTRONE

È risaputo che la psicanalisi talvolta non raggiunga i propri scopi. Succede pure che potrebbe aumentare i problemi dei pazienti, o addirittura creare veri e propri disastri psicologici. Tutto sta nella scelta del medico: Maurizio, malconsigliato dalla fidanzata, si rivolge a un luminare per la verità poco illuminato dalla scienza. In fondo si tratta di trovare la causa di una fastidiosa eiaculazione precoce che non riesce a spegnere la focosità di lei e mortifica lui. Ci penserà il grande Grabski, psichiatra tanto esoso quanto infarcito di concetti appresi, forse troppo superficialmente, da Freud, Lacan e Jung. Su tutti incombe la figura mitologica di Edipo, padre di tutti gli inconsci malati; poi c’è la grande madre, come archetipo femminile. E poi, per il nostro Maurizio, per fortuna, ci sono soprattutto le polpette di sua madre, che però non riusciranno a scardinare né le teorie né le pretese economiche di Grabski.

13 ottobre 2022

«La signorina Giulia» di Strindberg; regia, Leonardo Lidi

Giuliana Vigogna e Christian La Rosa

Roma, Teatro Vascello
12/10/2022

Darwin nella stanza della signorina Giulia

Se il naturalismo letterario e artistico ha lo scopo di mantenere in scena un atteggiamento realistico; se il naturalismo invocato da Zola (1880) invita a rispettare sulla scena i dettagli dell’ambiente che sono determinanti per il comportamento dei personaggi; se è vero che Strindberg è considerato il capostipite del teatro naturalistico, La signorina Giulia, presentato dallo Stabile umbro, al Vascello di Roma fino al 16 ottobre, per l’adattamento e la regia di Leonardo Lidi, non ha nulla di tutto questo: recitazione, movimenti e soprattutto l’impianto scenografico fanno pensare piuttosto a un teatro decisamente astratto, quasi metaforico. Lidi, infatti, impianta la sua regia (che lo indirizza inevitabilmente a un adattamento del testo originale) partendo dall’idea dello spazio/tempo che soffoca le esigenze della nostra vita; un concetto che l’opera di August Strindberg certamente contiene, benché sviluppata in maniera molto diversa. Pertanto i tre personaggi del dramma, quando rispettano i loro ruoli, sono eretti, cioè, godono di una posizione che Darwin (che del naturalismo artistico fu l’ispiratore) definirebbe da homo erectus, mentre quando gli stessi ambiscono a liberarsi della loro posizione, a uscire dai propri confini sociali, eccoli costretti a una postura ricurva, molto simile a quella delle scimmie.

10 ottobre 2022

«Dante» un film di Pupi Avati

Alessandro Sperduti è Dante
Roma cinema Lux
6 ottobre 2022

SOFFRE DI TROPPE OMISSIONI IL DANTE DI AVATI

Dante morì a soli 56 anni, giammai vecchio dunque; anzi a un’età che oggi non discosta molto dal mezzo del cammin di nostra vita: e l’intuizione pregevole di Pupi Avati è proprio quella di restituirci il fresco viso di un giovane che si potrebbe definire affettuosamente «uno sbarbatello» del tutto inatteso al grande pubblico, abituato da secoli a riconoscere il grande poeta fiorentino nell’arcigno profilo nasuto e un po’ musone. Invece il sorriso quasi ingenuo del bravo Alessandro Sperduti sorprende assai positivamente lo spettatore e regala al film un senso di leggerezza che altrimenti prenderebbe una piega eccessivamente solenne. Intrigante e ben studiato anche il percorso del racconto della vita di Dante, narrato da Giovanni Boccaccio (un ottimo Sergio Castellitto), incaricato dall’ingrato governo fiorentino di donare dieci fiorini d’oro come risarcimento tardivo e simbolico alla figlia del poeta, suora in un monastero di Ravenna.

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