29 dicembre 2022

«Il riformatore del mondo» di Thomas Bernhard

Roma, Teatro Tor Bella Monaca
28 dicembre 2022

LAUREA HONORIS CAUSA AL MISANTROPO DI BERNHARD

La cronaca impone una premessa. Il cartellone annunciava Glauco Mauri al fianco di Roberto Sturno, ma un’indisposizione ha costretto Mauri, novantadue primavere, a dare forfait. Pur se la delusione tra il pubblico è parsa tangibile, il testo di Thomas Bernhard è andato ugualmente in scena. Il ruolo del protagonista, infatti, era affidato, come da regia, a Roberto Sturno, mentre Mauri avrebbe dovuto partecipare alla pièce con un cameo, quindi la sostituzione è stata possibile. In teatro, quando l’attore protagonista non può entrare in scena per motivi di salute, solitamente si annulla lo spettacolo. Non ce n’è stato bisogno. Comunque, auguri a Glauco Mauri di pronta guarigione.

23 dicembre 2022

«Fake», di Riccardo Pechini e Mariano Lamberti


Roma, Off/Off Theatre
21 dicembre 2022

BALDUCCI, OTTIMO ATTORE IN CERCA DEL SUO PERSONAGGIO

Lorenzo Balducci viene accolto dal pubblico che affolla la sala del Off/Off con l’entusiasmo di una star. Qualche accenno di ballo e dà il via a Fake, il nuovo show che si annuncia come il proseguimento dell’altro (che però non abbiamo visto), ma con qualche variante: evitare di parlar male di chi non gli è simpatico, annuncia tradendosi immediatamente. Le risate decollano e le grida dei fan lo entusiasmano visibilmente. Lui ci crede. È solo in scena. Solo con un microfono ben stretto in mano, un po’ troppo abbondante, forse, per un teatro di prosa, ma nulla che possa intimidire chi, in pochi secondi, con un volo pindarico, passa da Renato Zero a Parmenide.

«Il crogiuolo», di Arthur Miller


Roma, Teatro Quirino
22 dicembre 2022

I SOCIAL SONO IL NOSTRO CROGIUOLO QUOTIDIANO

Il crogiuolo di Arthur Miller trae spunto dai documenti del processo avvenuto nella cittadina di Salem nel 1692 che portò 19 persone ad essere giustiziate per stregoneria. Tuttavia non è difficile riconoscervi l’aspra critica dell’autore alle condanne avvenute negli anni Cinquanta nell’America maccartista, quando il senatore Joseph McCarthy praticava un’esasperata persecuzione nei confronti di persone ritenute filocomuniste.

Ora vien da chiedersi perché Filippo Dini ha sentito la necessità di portare in scena una commedia che tratta un argomento, quello della caccia alle streghe, oggi considerato primitivo, un argomento lontano dal nostro tempo e dalla nostra cultura, nell’epoca dell’esplosione dei social sul web? Forse perché in Italia si sente odor di novello maccartismo?

18 dicembre 2022

«Vuroa» di Antonio Amoruso


Roma, Teatro Tordinona
17 dicembre 2022

L’INTERESSE INTORNO ALL’ERUZIONE RICORDA IL TERREMOTO DELL’AQUILA 2009

Ancora stasera si replica alla sala Pirandello del Tordinona il racconto dell’eruzione del vulcano Vuroa. Una storia che sembra vera ma che invece è soltanto basata sulle conseguenze che molte catastrofi hanno provocato. Potremmo dire, infatti, che la vicenda, ambientata in una ipotetica Parmos (isola dell’arcipelago giapponese), ricorda molto quel che accadde a L’Aquila nella primavera del 2009. Nella storia scritta da Antonio Amoruso si riesce a prevedere di qualche settimana la terrificante eruzione del Vuroa, e immediatamente i delatori si scontrano con la cecità dei politici che sposa l’interesse degli imprenditori: mentre i primi si perdono in discorsi persuasivi gonfiati da inutile sicumera, gli altri si preparano, come avvoltoi in agguato, già immaginando i lauti guadagni per la possibile ricostruzione. Nessuno pensa alla salvezza dei cittadini, come spesso accade; nemmeno la protezione civile.

17 dicembre 2022

«Io, Gaber e gli altri» di e con Pierfrancesco Poggi


Roma, Off/Off theatre
16 dicembre 2022

QUANDO GABER E LUPORINI ERANO LIBERI DI ESSERE POLITICAMENTE SCORRETTI

Tre giorni di appassionata allegria con Pierfrancesco Poggi al Off/Off di Silvano Spada. Tre giorni, dal 16 al 18 dicembre, in compagnia di Giorgio Gaber, di Bruno Lauzi, di Sergio Endrigo, Lucio Battisti e altri: una generazione, o forse più, di cantautori che hanno segnato un’epoca. Io, Gaber e gli altri è una lunga piacevolissima passeggiata canora tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo, intervallata da alcuni sketch che l’attore propone come divertissement.

Accompagnato alla tastiera dal musicista compositore Lamberto Macchi, Pierfrancesco Poggi – «Chicco» per gli amici – dedica lo spettacolo soprattutto a Giorgio Gaber (finanche il titolo fa riferimento a una sua canzone), introdotto però dalle romantiche note di «Io che amo solo te» di Sergio Endrigo. La carrellata su Gaber (e Luporini) si apre con «Goganga», poi «Far finta di essere sani», «Le mani», «Lo shampoo» e tante altre fino ad arrivare ai grandi successi politicamente molto scorretti (quando si poteva!) «Le elezioni» e «La libertà». Non a caso Poggi commenta, strizzando l’occhio a Fausto Bertinotti, seduto in prima fila: «Certo che Gaber e Luporini, non ci andavano leggeri». L’ex presidente della Camera sorride platealmente desolato, mentre in sala c’è chi ironicamente sussurra alle sue spalle: «Qualcuno era comunista».

12 dicembre 2022

«Sans toi avec moi. L’amore dopo l’amore», concerto ideato da Silvia Frangipane


Roma, Teatro Antigone
11 dicembre 2022

IL GIUSTO AMORE RIVIVE IN CANZONE

Più che un concerto di musica francese, Silvia Frangipane ha ideato un canto d’amor perduto per voce solista e trio jazz. La voce – la sua naturalmente – è la malinconia d’amore, mentre l’eccellente terzetto formato da Primiano Di Biase al pianoforte, Simone Talone alle percussioni e Renato Gattone al contrabbasso rappresenta la vita, con tutte le sue spumeggianti sorprese, le improvvise variazioni, le assurde incognite, che comunque continua a girare intorno al suo perno principale, l’amore, appunto: quello rievocato dalla Frangipane in Sans toi avec moi che significa «Io senza di te». A cui ha aggiunto un sottotitolo esplicativo: l’amore dopo l’amore, ossia la sensazione che resta dopo che il rapporto tra gli amanti sembra essere tramontato.

09 dicembre 2022

«Tortellini e il giorno in cui furono inventati» di Alice Bertini e Federico Gatti


Roma, Fortezza est
8 dicembre 2022

NUNTIO VOBIS GAUDIUM MAGNUM:
TORTELLINI AL SAPOR DI VENDETTA

La deliziosa favola che Alice Bertini e Federico Gatti hanno portato in scena, nella sala della Fortezza Est a Torpignattara, è scritta sulla sensibilità poetica degli autori, e allora spero non dispiaccia citare i famosi versi del Morgante: «E credo ne la torta e nel tortello; l’uno è la madre, e l’altro è il suo figliuolo…». Così Luigi Pulci nel XV secolo spiegava l’etimologia del tortello, indicandolo come diminutivo, il figliuolo appunto, della torta. Più tardi arrivò il tortellino, diminutivo di seconda generazione, ossia nipote della torta.

08 dicembre 2022

«Angel of Kobane», di Henry Naylor


Roma, Teatro Belli
7 dicembre 2022

REHANA, RINATA CON IL SANGUE DEL SUO ANGELO

A narrare le atrocità della guerriglia, in scena c’è soltanto Anna Della Rosa, la quale subito ci avverte che Kobane è una città poco nota a nord della Siria, al confine con la Turchia, e il suo angelo, Rehana, la protagonista della storia, è una ragazza ancor meno conosciuta. Ma quel che lei s’appresta a raccontare è tutto vero. Nell’ottobre del 2014 un nutrito commando di militanti dell’Isis assediò Kobane, tenendola sotto scacco per svariati giorni, fino a quando fu costretto a ritirarsi parzialmente grazie alla tenace offensiva dei resistenti locali: un’agguerrita squadriglia formata quasi esclusivamente da donne, tra cui Arin Mirka, immolatasi per aver fatto esplodere una roccaforte dell’Isis; e Rehana, una ragazza che, prima di diventare avvocato, per fare giustizia, fu costretta a impugnare il kalashnikov.

07 dicembre 2022

«Beginning» di David Eldridge


Roma, Sala Umberto
6 dicembre 2022

INAUDI E SCIFONI, UNA NOTTE INSIEME PER CANCELLARE LE RISPETTIVE SOLITUDINI

David Eldridge, drammaturgo inglese, nato nel 1973, sembra prendere spunto per il suo Beginning, che ha debuttato ieri sera in prima nazionale alla Sala Umberto di Roma, dai versi di una famosa canzone di Califano e Bindi presentata al Festival di Sanremo nel 1967: «Ecco, la musica è finita, gli amici se ne vanno … cosa non darei per stringerti a me». Naturalmente la considerazione canora non ha nulla di realistico, ma è soltanto una reminiscenza di chi appartiene a una generazione non più giovanissima: eppure la commedia si apre sull’ultimo ospite rimasto a casa di Laura che ha inaugurato il suo nuovo appartamento in una esclusiva zona di Londra; tutti gli altri partecipanti sono andati via, la musica è finita, resta una gran confusione tra bicchieri e bottiglie, tovagliolini e cuscini a terra; lei è distesa sul divano in attesa che lui prenda l’iniziativa, ma malgrado (prima) le suadenti provocazioni di lei e malgrado (poco dopo) le più convincenti esternazioni, sempre da parte di lei, Daniele sembra essere refrattario a ogni richiamo erotico. Cos’altro sarebbe disposta a fare Laura per avere Daniele tra le sue braccia? Parlare per iniziare un rapporto. Ecco, beginning. Cominciare a parlare per cercare di sciogliere la glaciale resistenza che blocca il suo amico. E dialogare potrebbe essere la strada più opportuna per scandagliare l’animo altrui. Occorre, però, imparare a parlare per scoprire le affinità, per abbattere le barriere, per aumentare il volume dei sentimenti: ma tutto questo benessere che le parole potrebbero raggiungere non fa parte del patrimonio né di Laura né di Daniele.

27 novembre 2022

«L'ombra di Caravaggio», film di Michele Placido


Roma, Cinema Lux
21 novembre 2022

MICHELANGELO MERISI, IL FUORICLASSE

Il Caravaggio di Michele Placido certamente vince, ma non convince, o forse convince poco. Vince perché Michelangelo Merisi è un fuoriclasse nell’arte e nella vita – un’esistenza che sembrerebbe proprio il frutto di un soggetto cinematografico – e vince soprattutto perché Riccardo Scamarcio ne interpreta l’animosità, il tormento e la ribellione con vigorosa efficacia. Vincente, lui, nella somiglianza oltre che, incisivo e persuasivo, nella recitazione. Il film vince, anzi stravince, perché il realismo pittorico di Caravaggio si presta a una teatralità incantevole: la realtà stessa da cui trae ispirazione diventa opera d’arte ancor prima di essere dipinta; non sono poche le sequenze dedicate alla sensibilità artistica del pittore che perfino dal cadavere di una sua modella (Annuccia Bianchini, morta suicida nel Tevere) ne ricava l’ennesimo capolavoro, «Morte della Vergine», 1604.

24 novembre 2022

«Porco mondo», di Francesca Macrì e Andrea Trapani

Roma, Teatro Basilica
23 novembre 2022

 QUANDO SEI QUI CON ME… IO FUGGO

«Quando sei qui con me, questa stanza non ha più pareti, ma alberi, alberi infiniti, quando sei qui vicino a me…». La canzone di Gino Paoli, «quello che ha la pallottola incastrata nel cuore», è qualcosa in più del leitmotiv di Porco mondo, testo scritto a quattro mani, dieci anni fa, da Francesca Macrì e Andrea Trapani, in scena al Teatro Basilica di Roma fino al 27 novembre. Paoli nel 1963 fu vittima di un incidente da arma da fuoco – si ipotizzò anche un tentativo di suicidio – per cui da allora il cantante convive con un proiettile nel miocardio perché i medici giudicarono troppo rischioso intervenire chirurgicamente. Quella pallottola – che nello spettacolo viene soltanto ricordata – in effetti, diventa il simbolo incandescente e pericoloso del tentativo di dialogo estremo che la coppia protagonista cerca al contempo di instaurare e di evitare nella loro stanza dal cielo fin troppo cupo.

11 novembre 2022

«La stranezza», film di Roberto Andò

Roma, Cinema Lux
9 novembre 2022

PIRANDELLO IN SICILIA CON I SEI PERSONAGGI

Ogni domenica mattina Luigi Pirandello aveva l’abitudine di «dare udienza» ai personaggi delle sue novelle. Cinque ore: dalle otto all’una. Quasi sempre gli sembrava di stare in cattiva compagnia, ma, per dovere di autore, sopportava. In occasione dell’ottantesimo compleanno di Giovanni Verga, dovendo assentarsi da Roma per raggiungere la Sicilia, lasciò loro un biglietto: «le udienze sono sospese». Prese il treno, e durante il viaggio si accorse di essere anche lì in pessima compagnia di sei personaggi che, incuranti dell’avviso, lo stavano seguendo: erano tutti nello stesso scompartimento, di fronte a lui, ciascuno nel suo atteggiamento ostinato, proprio come s’erano già presentati nel suo studio romano qualche tempo prima.

«Diario licenzioso di una cameriera», di Mario Moretti


Roma, Teatro Sophia
11 novembre 2022

AMMICCAMENTI IN GUÊPIÈRE

Quando cominciai a far teatro – sul serio – gli attori avevano a disposizione trenta o quaranta giorni di prove per assimilare bene lo spettacolo che s’apprestavano a rappresentare. Eppure i capocomici pretendevano da loro che, al primo giorno di prove, la memoria fosse già ben avviata: significa che, quando la compagnia si riuniva attorno a un tavolo per la prima lettura del regista, che tutti chiamavano maestro, i commedianti sapevano, anche se non perfettamente, già ripetere a mente le battute del copione corrispondenti al proprio ruolo. Durante il lungo periodo di prove, infatti, si dovevano memorizzare le intonazioni, rispettare i movimenti impartiti dal regista, trovare la gestualità del personaggio, modificare le intenzioni per accordarsi tutti come in un’orchestra, seguendo quei tagli e quelle piccole correzioni al testo che completavano la regia; e soprattutto assorbire tutto questo affinché parole, toni, movimenti e gesti acquisissero la leggerezza della quotidianità, la naturalezza dell’indipendenza, ossia quella capacità di far apparire ogni cosa indipendente l’una dall’altra, anche se in pratica – e lo sa bene chi fa teatro – si tratta dell’esatto contrario. Ma il teatro è finzione, e la prima finzione di un attore è quella di nascondere al pubblico la propria tecnica, è quella di camuffare al meglio i propri difetti; è quella di far apparire semplice ogni difficoltà affrontata in prova. Ecco perché occorre arrivare preparati, con la parte imparata a memoria, al primo giorno di prove.

08 novembre 2022

«Il berretto a sonagli», di Luigi Pirandello

Roma, Teatro Quirino
8 novembre 2022

LAVIA PORTA CIAMPA AL TEATRO DEI PUPI

«Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d’essere. E allora cominciano le liti.» È uno dei ragionamenti cardine che Luigi Pirandello fa dire a Ciampa, protagonista del Berretto a sonagli nella bella e inconsueta edizione di Gabriele Lavia. E la suggestiva scena – firmata da Alessandro Camera – prende spunto da questa battuta per diventare quel sacco che per reggersi ha bisogno di lasciar entrare la ragione e i sentimenti che han determinato il fatto da esporre. Sì, perché un sacco vuoto non si regge, avverte altrove Pirandello. E allora, dato per assodato il netto cambiamento epocale rispetto al presente che non saprebbe come prendere in considerazione uno scandalo familiare d’inizio novecento, è meglio che codesto sacco si riempia di quei sentimenti atavici e originali della Trinacria.

«The wasp», di Morgan Lloyd Malcolm


Roma, Teatro Belli
7 novembre 2022

VERY GOOD PLAY!

Al Belli il sesto appuntamento della rassegna Trend sulla nuova drammaturgia inglese propone The wasp, una commedia noir, assai intrigante e ben scritta da Morgan Lloyd Malcom che, con un impeccabile senso della suspense, assesta due colpi di scena molto avvincenti capaci di rapire l’attenzione dello spettatore, ma anche di inchiodare il critico al silenzio coatto: raccontare la trama di un thriller affascinante, o svelarne i meccanismi, sarebbe errore imperdonabile.

Senza perderci d’animo, analizzeremo altro.
Dall’inglese, «the wasp» si traduce con «la vespa», ma nel bel mezzo della vicenda scopriamo che si tratta di un insetto molto più sofisticato nella sua crudeltà, denominato il falco delle tarantole. La femmina di questo particolare Pompilidae (Wikipedia ci aiuta a trovare sinonimie appropriate), quando deve deporre il suo unico uovo va a caccia della tarantola. L’insetto, dotato di un ottimo fiuto, riesce a individuare la preda anche all’interno della tana. Facendosi largo tra le ragnatele, con il potente pungiglione colpisce la vittima in pieno petto, paralizzandola con il veleno. Quindi, all’interno del corpo del ragno, introduce l’uovo che genererà una larva, la quale si ciberà delle sue interiora fino a quando avverrà la metamorfosi e sarà in grado di spiccare il volo salutando la tarantola che l’ha ospitata e che ormai è ridotta a cadavere.

06 novembre 2022

Intervista a Carlo Ragone


Roma, Teatro Vittoria
5 novembre 2022

IL TEATRO FORGIA IL PENSIERO CRITICO, MA NON SI INSEGNA A SCUOLA

È salernitano, Carlo Ragone, ma non troppo. Sì, sono nato a Salerno nel 1967, ma poco dopo sono rinato a Napoli.
Ancora neonato fui ricoverato al Policlinico di Napoli per una grave forma di itterizia. Lo chiamavano ittero mortale. Qualcuno mi dava per spacciato, invece grazie alle cure del professor Lupo, sono ancora qui.

Un miracolo?
Forse. Quando mia madre ringraziò il dottore, lui le disse: «Non dovete ringraziare me. Dovete ringraziare San Gennaro: questo bambino ha la forza e la volontà di vivere e vivrà. Una storia che racconto anche nello spettacolo che porto in scena».

05 novembre 2022

«Conta che passa la pazza» di e con Irma Ciaramella


Roma, Teatro Porta Portese
4 novembre 2022

IL DELIRIO, O DIALOGHI CON UNA CAFFETTIERA

Chi può dire se sia meglio perdere la memoria o se prendere coscienza di essere diverso dagli altri, tra loro simili, e sentirsi all’improvviso esclusi dal mondo che ci ha accolti fino a quell’istante? Il quesito resta senza risposta, perché sia gli uni che gli altri si abbandonano a uno stato patologico di assurde convinzioni. Il delirio.

04 novembre 2022

«Buonasera a tutti», di Peppe Barra


Roma, Off/Off Theatre
3 novembre 2022

UN BAMBINO DEL 1944 SEDUTO SULLA SEDIA

Eduardo, quando frequentava i set cinematografici, ai giovani che gli chiedevano timorosi cosa occorresse per far cinema, abituato alle estenuanti attese tra una ripresa e l’altra, rispondeva sicuro: «Giovanotto, procuratevi una sedia». Peppe Barra fa eccezione. Lui fa teatro, ma una sedia se la procura sempre. Ormai in quasi tutti gli spettacoli di Barra la sedia campeggia in proscenio. È diventata la cifra stilistica delle sue performance: per lui, diremo, è una sicurezza necessaria, perché Barra ha un’età certa; per noi seduti in platea, invece, quella sedia rappresenta la sua generosa convivialità. Peppe Barra ama il pubblico e sedendosi di fronte ai suoi spettatori comincia a conversare amichevolmente senza neanche troppo impegno, pare.

03 novembre 2022

«Agamennone», di Ghiannis Ritsos


Roma, Teatro Tor Bella Monaca
2 novembre 2022

IL RE SI PERDE IN UN BICCHIER D’ACQUA

L’Agamennone del poeta ellenico Ghiannis Ritsos mostra una sottile novità che fa da sfondo alla pena che deve scontare un re osannato dal popolo, «un re perfetto» com’è definito nel prologo. Agamennone, pur se acclamato vincitore in patria, sente su di sé l’ineluttabile condanna della vecchiaia. Dopo dieci anni trascorsi a capo dell’esercito greco in quel di Troia, su di lui ora grava il peso della fatica del tempo trascorso, anziché l’entusiasmo dell’eroe trionfante.

Il re diventa uomo. Infatti, è la decadenza dell’uomo. Fisica e morale. Ma non solo: c’è dell’altro.

«Preparami l’acqua per un bagno caldo», chiede alla moglie Clitennestra che lo accoglie in casa come un perfetto estraneo. E così comincia, da parte di lei, un sadico gioco fatto di acqua versata in un numero esorbitante di bicchieri: travasi continui, effettuati prima con una brocca e poi con le mani, goccia a goccia per tutto il tempo dello spettacolo. È vero: «Gutta cavat lapidem» dice il proverbio, la goccia scava la roccia. Quella goccia costante, nelle mani di una moglie che aspetta il marito da dieci anni, diventa l’arma letale che consuma e spegne ogni tentativo virile.

Non so quanto l’acqua faccia parte del testo originale di Ritsos, ma nella messa in scena di Alessandro Machìa, l’acqua diventa la reale protagonista della tragedia. La regia pone il tavolo di lavoro a centro scena, lasciando lateralmente Agamennone fiaccato nello spirito sia dal combattimento che dalla freddezza della consorte: così la regina solitamente antagonista prende il sopravvento a discapito del re, il cui nome trionfa sul manifesto (un «quasi equivoco» riuscito perfettamente anche a Shakespeare con il Macbeth). Ma, la vera sorpresa scenica è che Clitennestra attira su di sé la concentrazione degli spettatori non pronunciando mai una sola parola, anzi, riuscendo ad esprimere l’intera gamma dei suoi stati d’animo attraverso una precisa gestualità danzante, manipolando l’acqua per farla rimbalzare sul tavolo delle sue fatture, e la goccia emette un suono, e i bicchieri cantano roteando il dito sul bordo, e il liquido assume prima fascino e poi ostilità. Clitennestra, grazie a questo magico incantesimo mima luci e ombre dell’acquario del suo mutismo e al contempo grida l’odio verso lo sposo con la violenza di un bicchiere rovesciato.

Lei è giovane e bella, con l’amante (Egisto, che mai appare) pronto a prendere il posto del re. Lui è vecchio, adagiato ormai nella stanchezza che è diventata il suo spazio, il suo linguaggio. «A che servono le parole», si chiede nel delirio dell’accidia. Vuole solo farsi un bagno caldo e niente altro. Dopo dieci anni di battaglia comprende che il suo corpo ha perso l’abitudine di possedere la sua donna. Sta per invitarla a giacere con lei, ma subito desiste, perché per lui «contano i fatti e non le parole». Eppure continua a parlare, nascondendosi dietro le parole, senza che nessun fatto prenda consistenza dai suoi racconti. È evidente: dopo la guerra cruenta non ha più fatti da consumare. O forse il suo destino si consuma in quel momento sotto i suoi occhi annegando in un bicchier d’acqua. Vien da pensare che nell’Agamennone di Ritsos riecheggino in lontananza le parole premonitrici di Cassandra, che avvertì il re della sventura che l’avrebbe colto al rientro in casa. Così, mentre Clitennestra trasforma l’acqua in sangue come fosse un ultimo sortilegio, Agamennone s’avvia, con la dignità di chi è conscio della fine, verso la morte.

La regia di Alessandro Machìa ha creato qualcosa di molto interessante, che va oltre la novità del testo; è entrato a fondo nella psicologia e nella sensibilità femminile capace di eliminare dentro di sé ogni traccia d’amore verso l’uomo che per dieci anni l’ha abbandonata, mostrandole nient’altro che il suo oblio. E si vendica con l’elemento più vitale e cristallino che esiste: l’acqua che rinfresca e disseta, ma, appunto, scava anche la roccia.

Proprio questa scelta, così visibilmente particolare e affascinante, scalza la recitazione dimessa e stanca di Andrea Tidona. L’attenzione del pubblico è rapita dal gioco dei bicchieri e dalla manipolazione dei liquidi che, grazie a due microfoni direzionali, restituisce le sonorità dell’acqua che in teatro raramente si ascoltano. L’effetto tecnico sembra rubare interesse al dramma del re, che per contrasto, invece, risulta falsato proprio dall’eccessivo uso del microfono di cui è dotato l’attore protagonista, il quale si trova spesso schiacciato dal rimbombo della sua stessa voce, così come il suo personaggio desta disinteresse da parte di una moglie abbandonata per dieci anni. Insomma, se l’amplificazione da una parte favorisce il mutismo di Clitennestra, dall’altra danneggia il monologo di Agamennone. (fn)
____________________
Agamennone, di Ghiannis Ritsos, con Andrea Tidona. Regia di Alessandro Machìa

Foto © Manuela Giusto

02 novembre 2022

«Intestamè» di Carlo Ragone e Loredana Scaramella

Carlo Ragone

Roma, Teatro Vittoria
1° novembre 2022

EREDE DI UN SORRISO ANTICO

Carlo Ragone – il personaggio Carlo Ragone – nasce in teatro probabilmente nella seconda metà dell’Ottocento, insieme a una generazione di attori che, soprattutto a Napoli, ma anche a Roma, generarono, plasmarono, forgiarono la figura del Comico: da Gustavo De Marco a Maldacea, da Ettore Petrolini fino a Totò e tanti altri: con loro bastava la giacca di un vecchio frac per far sbocciare il fiore del sorriso nell’animo dello spettatore. Furono loro, ognuno creando una sorta di propria controfigura (la famosa macchietta), che rinnovarono il genere teatrale, inventando un tipo di spettacolo più popolare e disinvolto, l’avanspettacolo. Grazie a questi geni della comicità, infatti, il muro della quarta parete crollò dando maggior spazio alla ribalta che consentiva ai protagonisti della scena di superare il limite imposto dalla linea del sipario per avvicinarsi alla platea e stabilire un rapporto diretto col pubblico, fatto di empatie e piccole collaborazioni all’impronta.

31 ottobre 2022

Un ospite di riguardo: Lelio Luttazzi (1991)


LA SUA ROMANTICA E SPIETATA «OBLOMOVERIE»

Mentre all’interno della Sala Sinopoli dell’Auditorium l’applauso s’innalza con una standing ovation al protagonista del documentario che Giorgio Verdelli ha dedicato al più grande pianista jazz che l’Italia abbia avuto, l’emozione di chi scrive vola tra i ricordi di un indimenticabile luglio del 1991. Una stagione balneare che s’aprì con una visita inaspettata: «Laeluis Lutatius cum Roxana».

All’epoca – mi si perdoni la prima persona – avevo 25 anni e potevo godere di lunghe vacanze al mare, che la sospensione dell’attività teatrale offriva a quelle compagnie che raramente frequentavano le piazze estive. La meta, ormai da qualche anno, era la solita: una invidiabile terrazza che dalla costa settentrionale della Corsica guarda a distanza le sagome dell’isola d’Elba e di Capraia. Con i primi caldi il piccolo borgo di pescatori tuttora resta poco frequentato, se non dai più affezionati villeggianti. In quel periodo, trentuno anni fa, una coppia di amici (dei miei genitori) prendeva lì una casetta in affitto per il mese di luglio; si chiamavano Mario e Mary. Andavo spesso a pesca di saraghi sul mio gozzo insieme con Mario. Una mattina, poco dopo l’alba, appena giunti in mare aperto, Mario mi informò di una novità: «Mi ha telefonato Lelio, avrebbe intenzione di raggiungermi qui con la moglie. Vengono in motoscafo per rimanere qualche giorno: tu sai meglio di me dove potrebbero alloggiare».

29 ottobre 2022

«Amleto die Fortinbrascmaschine» di Roberto Latini


Roma, Teatro Basilica
28 ottobre 2022

LA VENDETTA SI RIPETE PER IL PRINCIPE DI DANIMARCA

«Siamo stati tutti uccisi per vendetta», ossia siamo un popolo di morti a cui la vita ha riservato il solo valore della vendetta. Lo erano all’epoca quei valorosi principi e lo siamo ora noi, meno valorosi e ugualmente (se non di più) arrabbiati e sempre pronti a sferrare il colpo: che sia quello sparato con la pistola nelle faide di malavita, o il fendente di una lama che uccide al centro commerciale, cediamo inesorabilmente il passo all’impeto del germe vendicativo.

E chissà che non rientri nella sfera delle vendette anche questo nuovo esercizio intellettuale che ruota intorno al principe di Danimarca: una nemesi giocata ai danni del tedesco Heiner Müller, il quale nel 1977 scrisse per il teatro «Hamletmachine». Come Fortebraccio, principe di Norvegia, il cui padre è stato ucciso dal padre di Amleto, vuole attaccare la Danimarca per vendicare la morte del genitore, così Roberto Latini riscrive con la punta di una spada affilata la trascrizione dall’Amleto shakespeariano già osata dal Müller. Si sa, anche gli scrittori non disdegnano la vendetta, ma per fortuna usano la penna che pure è un’arma, ma tutt’altro che cruenta.

26 ottobre 2022

«Certi di esistere» di Alessandro Benvenuti


Roma, Teatro Vittoria
25 ottobre 2022

«IL TEATRO VA AIUTATO»

Un amico colto e sapiente, che conta qualche primavera più del sottoscritto, al termine di Certi di esistere, scritto e diretto da Alessandro Benvenuti, in scena al teatro Vittoria, ha sospirato profondamente prima di esprimere il suo pensiero da ultra-collaudato giornalista dello spettacolo: «Il teatro va aiutato». Evidentemente anche lui sentiva il peso del forte imbarazzo che opprimeva le nostre riflessioni a caldo.

24 ottobre 2022

«Centomila, uno, nessuno» di Giuseppe Argirò

23 ottobre 2022

SIGNORI, VI PRESENTO LA VOSTRA COSCIENZA

Uscendo dal teatro Arcobaleno di via Redi, dopo aver assistito alla Curiosa storia di Luigi Pirandello, il primo istintivo pensiero è stato quello di imboccare via Nomentana, voltare a destra e, comodamente a piedi, in appena cinque minuti, risalire via Bosio, sempre sulla destra, per raggiungere Pirandello a casa sua. Non saprei dire come mi avrebbe accolto: se come un suo ammiratore, un amico o come un semplice seccatore, o magari come personaggio. Io invece avrei voluto confessargli che, grazie a lui e con lui – con le sue parole, voglio dire – ci sente meno soli, si avverte vivo il senso dell’intelligenza, e soprattutto si ha l’impressione di ritrovarsi più vicino alla gente in strada, quella che ormai troppo spesso, oppressi come siamo dal caotico mal di vivere, non riusciamo più a sopportare. E avrei voluto dirgli, anche, che dopo tanti anni di confidenziale frequentazione letteraria, mi sono convinto della sua sacra missione su questa terra: con i suoi pirandellismi, infatti, egli ci predispone, ogni volta lo si ascolti, alla ragionevole comprensione dei nostri simili. Un miracolo che riuscì, in parte, soltanto a Gesù Cristo.

E se lui, fine narratore dell’umanità moderna, ha bisogno d’attaccarsi alla vita degli altri per dare consistenza alla sua sensibilità, io, essere comune, sento la necessità di attaccarmi alle sue parole per comprendere prima di tutto me stesso: i miei errori, le mie colpe, le mie vergogne, le mie immoralità e tutto ciò che mi condiziona l’esistenza. Però esigo che sia lui a svelare me a me stesso, con il suo fine ragionamento da letterato (e non da medico dei pazzi), e con il suo linguaggio elegante, dolce e convincente, anche quando è severo e spietato e mi ricorda che la verità è una prigione, sia quando la si ascolta, ma soprattutto quando la si dice: infatti, ammette – con il candore di un bambino – che ci sono cose che non si possono dire, perché è facile perdersi nella banalità del male quando non si ha la coscienza di sostenerle. Oppure quando, per un caso sciaguratissimo, egli mi sorprende all’improvviso in uno di quegli atti che, appunto, non si possono dire, a cui io resto agganciato e sospeso finché la mia stessa coscienza non si redimi per davvero.

Il testo costruito da Giuseppe Argirò e riproposto da Giuseppe Pambieri è, nonostante un involontario «imbarazzo del leggio», essenzialmente questo: un grande omaggio al nostro drammaturgo per eccellenza; è il racconto della vita di un’anima a cui piaceva visitare l’indole, il carattere e la mente di ciascuno di noi; è l’epopea in nuce di un’umanità costantemente allo sbando tra ipocrisia e follia, e tra finta magnanimità e autentica meschinità. Ascoltando il racconto di Pambieri ci si accorge che Pirandello siamo noi. Tutti noi, ciascuno a suo modo.

Per carità, il riferimento al leggio non vuole essere una critica negativa allo spettacolo, anzi, addirittura se ne intuisce la necessità della presenza di un libro che parli, e si comprende pure che quel libro è Pirandello, il quale amabilmente chiacchiera delle sue cose che sono le nostre cose; e non è, quel libro, uno dei tanti personaggi accorso lì per rivivere il suo dramma da rappresentare sulla scena. Tuttavia, proprio per l’interprete – un attore come Pambieri abituato a portare la sua voce al pubblico – un leggio posto tra sé e la platea lo obbliga a restare appartato, distante, separato, un po’ nascosto e con lo sguardo costantemente rivolto verso il basso, ad occhi chini; tanto che a un certo punto mi sono concesso l’impudenza di socchiudere i miei per estraniarmi dalla realtà che mi circondava e poter godere maggiormente del linguaggio di un maestro della meravigliosa lingua italiana.

Sì, la lingua che Pirandello costruisce per sé e per le sue creature è accattivante, seduttrice, ammaliatrice. Peccato che in platea non ci fossero giovani ad ascoltare come si parla l’italiano, come lo si potrebbe usare, con le sue possibilità, la sua poesia e la sua musicalità: quei giovani che oggi masticano una lingua tutta loro, attraverso un aggeggio elettronico che brucia i tempi del pensiero (l’arma del raisonneur!), e non so quanto questo aggeggio possa illuminare d’immenso le nostre vite, come invece è riuscito a fare Pirandello che ha acceso in ciascuno di noi un faro sulle coscienze di tutti, rappresentandole – una e centomila – su di un palcoscenico davanti ai nostri occhi. Quei giovani, purtroppo, mancavano all’appello. (fn)
________________________
Centomila, uno, nessuno. La curiosa storia di Luigi Pirandello, scritto e diretto da Giuseppe Argirò; con Giuseppe Pambieri

Pubblicato anche su Quarta Parete il 24/10/22

23 ottobre 2022

«Favola» di Giorgia Cerruti


Roma, Teatro Basilica
22 ottobre 2022

IL VIAGGIO NELLA MEMORIA DI G.

Si scrive «Favola», si legge incubo. Ma è un incubo affascinante che ha le sue motivazioni e le sue giustificazioni. G e D, i due personaggi di questa tragedia da camera, come è stata definita, vivono rinchiusi in una stanza: insieme formano una coppia, e per oltre un’ora sembrano accordare perennemente i loro strumenti per un duetto che riusciranno a suonare soltanto negli ultimi cinque minuti di spettacolo, quando finalmente nel labirinto del dramma tutto si dipana e si chiarisce. Prima che ciò accada noi spettatori fatichiamo a seguire l’armonia del racconto (perché, in effetti, non c’è), spesso ci perdiamo nei meandri della pioggia di note che cascano disordinate. Improvvisamente, però, si intuisce che l’autore, Fabrizio Sinisi, ci sta abilmente conducendo lungo un tortuoso percorso nella memoria di G: una memoria scomposta, tutta da ricostruire.

Dalla paginetta di note scritte per lo spettacolo da Giorgia Cerruti, ideatrice del testo, regista e attrice (bravissima), si evince che la tragedia è tratta da una storia vera, come si dice spesso nel linguaggio cinematografico; e forse questo è il motivo per il quale la sua recitazione contiene una verità che artiglia immediatamente l’ascoltatore. «Il soggetto – continua la nota – è un libero richiamo al “Calderòn” di Pier Paolo Pasolini», che è ispirato a «La vita è sogno» del secentesco drammaturgo spagnolo. Eppure, al di là del riferimento alla necessità dell’uomo di sognare, non si possono azzardare altri confronti. «Favola» gode di una sua indipendenza drammaturgica matura e profonda.

Mentre G è colei che, perduta la memoria, è alla ricerca di se stessa e del suo passato, D, cioè lui (il convincente Davide Giglio), è un personaggio dalla doppia personalità. Il primo teatrale: il marito borghese e affettuoso che tenta di guarire la mente della moglie ferita da un trauma, e quindi le regala dei fiori, l’aiuta a ricordare, la stimola dolcemente e con pazienza cantandole perfino la bella canzoncina. Il secondo metateatrale: un autentico carnefice, una sorta di Cotrone (ultimo protagonista pirandelliano), il quale non si fa scrupoli di mostrare l’intima tragedia della sua donna davanti al pubblico, sfruttando tale tragedia e la di lei vaghezza per racimolare qualche soldo. Insomma, D si occupa dell’altra faccia della prostituzione, e con impudenza l’ammette: «Ripercorriamo in pubblico le fasi del nostro dolore». Lui, il marito che da borghese è tutto smorfie e moine, è pronto a trasformarsi in lenone, dichiarando per di più che tutta quella confusione che G aveva vissuto «non era sogno, ma un’altra vita». Più che Freud, più che Pasolini o Calderon, in teatro c’è sempre lui, il solito Pirandello che pone la finzione davanti allo specchio dove si riflette la realtà. Sì, perché viene anche forte il sospetto che l’intera tragedia di G sia stata causata, in un’altra vita, appunto, proprio dal viscido D, il piccolo borghese che in sogno si presenta come il re della favola bella.

Sul palco, i protagonisti ripercorrono ogni giorno le favole del proprio dolore, attraverso le immagini che si proiettano su uno schermo. Sono le visioni sognate dallo smarrimento mentale di G, quindi è ovvio che siano poco esplicative e affatto chiarificatrici, oltre che piatte e «meccaniche». Poiché la recitazione dei due protagonisti, invece, è viva, tenace, affiatata, credibile e molto coinvolgente, quelle immagini, poste in secondo piano, diventano superflue perché il pubblico segue le emozioni direttamente dagli attori e non dalle proiezioni. Accade quindi un fenomeno contrario a quel forse era nelle intenzioni della regia. E siccome emozioni e applausi non mancano, speriamo che lo spettacolo possa replicarsi a Roma anche in «futuro… sei lettere!», dice G. quando comincia a capire che il passato non torna. (fn)
____________________
Favola di Fabrizio Sinisi, con Giorgia Cerruti e Davide Giglio. Regia di Giorgia Cerruti

Pubblicato anche su Quarta Parete il 23/10/22

18 ottobre 2022

«Testimony», di Simon Bovey

I protagonisti di Testimony

Roma, Teatro Belli,
20 ottobre 2022

BOVEY PUNTA IL DITO SULL’ABUSO DI POTERE

Al Teatro Belli di Trastevere ha preso il via Trend, nuove frontiere della scena britannica, rassegna a cura di Rodolfo di Giammarco. Apre la XXI edizione Testimony, di Simon Bovey, drammaturgo e sceneggiatore inglese nato nel 1960: vien da pensare che l’autore abbia scritto, per dar voce a una ribellione collettiva, un dramma del quale egli stesso sia stato, in veste di comune cittadino, testimone senza diritto di parola. Esattamente come molti di noi (italiani) lo siamo stati quando simili fatti di cronaca sono avvenuti sul nostro territorio: vedi il caso Cucchi a Roma o il caso Magherini a Firenze. In teoria si dovrebbe aver tutti massima fiducia nelle forze dell’ordine, nelle autorità, invece, succede che increduli e inermi assistiamo alle vessazioni di chi ci dovrebbe proteggere. Bovey, infatti, punta il dito sul consueto abuso di potere da parte di chi ne detiene il controllo, e sulla condizione di «eterno colpevole» di colui che è già caduto in errore nei confronti della legge, senza possibilità di redenzione.

«Un archivio fotografico per il teatro» di Paola Bertolone

Roma, Teatro Quirino
17 ottobre 2022

TOMMASO LE PERA, MEMORIA STORICA DEL PALCOSCENICO

Luchino Visconti amava far teatro perché, tra i tanti motivi, era convinto che la creazione in palcoscenico corrispondesse a quei canoni artistici di cui egli era diretto discendente culturale: «Tutta l’arte è completamente inutile», sosteneva, infatti, Oscar Wilde; e ispirandosi ai più famosi versi di Malherbe, Visconti scrive che il teatro deve rappresentare tanto la perfezione quanto la caducità «delle più belle cose che nascono e muoiono, avendo vissuto l’espace d’un matin, que vivent les roses», lo spazio di un mattino, quello che vivono le rose. Non a caso per secoli l’arte più completa dell’universo s’è fatta, soprattutto in Italia, pensando fosse ormai tradizione trascriverla nel vento o nell’acqua che fugge, per dirla con Catullo; fino a quando, un giorno di qualche anno fa, Tommaso Le Pera si accorge che la sua riscrittura storica del teatro italiano degli ultimi 50 anni non è stata né spolverata dal vento né cancellata dall’acqua, ma è lì davanti ai suoi occhi, e che l’autore di cotanta fatica è proprio lui che con la sua macchina fotografica ha conservato viva la memoria di migliaia di spettacoli.

15 ottobre 2022

«Il grande Grabski» di Vanacore-Rinaldi


Roma, Teatro 7 Off
14 ottobre 2022

GRABSKI, IL GRANDE CIALTRONE

È risaputo che la psicanalisi talvolta non raggiunga i propri scopi. Succede pure che potrebbe aumentare i problemi dei pazienti, o addirittura creare veri e propri disastri psicologici. Tutto sta nella scelta del medico: Maurizio, malconsigliato dalla fidanzata, si rivolge a un luminare per la verità poco illuminato dalla scienza. In fondo si tratta di trovare la causa di una fastidiosa eiaculazione precoce che non riesce a spegnere la focosità di lei e mortifica lui. Ci penserà il grande Grabski, psichiatra tanto esoso quanto infarcito di concetti appresi, forse troppo superficialmente, da Freud, Lacan e Jung. Su tutti incombe la figura mitologica di Edipo, padre di tutti gli inconsci malati; poi c’è la grande madre, come archetipo femminile. E poi, per il nostro Maurizio, per fortuna, ci sono soprattutto le polpette di sua madre, che però non riusciranno a scardinare né le teorie né le pretese economiche di Grabski.

13 ottobre 2022

«La signorina Giulia» di Strindberg; regia, Leonardo Lidi

Giuliana Vigogna e Christian La Rosa

Roma, Teatro Vascello
12/10/2022

Darwin nella stanza della signorina Giulia

Se il naturalismo letterario e artistico ha lo scopo di mantenere in scena un atteggiamento realistico; se il naturalismo invocato da Zola (1880) invita a rispettare sulla scena i dettagli dell’ambiente che sono determinanti per il comportamento dei personaggi; se è vero che Strindberg è considerato il capostipite del teatro naturalistico, La signorina Giulia, presentato dallo Stabile umbro, al Vascello di Roma fino al 16 ottobre, per l’adattamento e la regia di Leonardo Lidi, non ha nulla di tutto questo: recitazione, movimenti e soprattutto l’impianto scenografico fanno pensare piuttosto a un teatro decisamente astratto, quasi metaforico. Lidi, infatti, impianta la sua regia (che lo indirizza inevitabilmente a un adattamento del testo originale) partendo dall’idea dello spazio/tempo che soffoca le esigenze della nostra vita; un concetto che l’opera di August Strindberg certamente contiene, benché sviluppata in maniera molto diversa. Pertanto i tre personaggi del dramma, quando rispettano i loro ruoli, sono eretti, cioè, godono di una posizione che Darwin (che del naturalismo artistico fu l’ispiratore) definirebbe da homo erectus, mentre quando gli stessi ambiscono a liberarsi della loro posizione, a uscire dai propri confini sociali, eccoli costretti a una postura ricurva, molto simile a quella delle scimmie.

10 ottobre 2022

«Dante» un film di Pupi Avati

Alessandro Sperduti è Dante
Roma cinema Lux
6 ottobre 2022

SOFFRE DI TROPPE OMISSIONI IL DANTE DI AVATI

Dante morì a soli 56 anni, giammai vecchio dunque; anzi a un’età che oggi non discosta molto dal mezzo del cammin di nostra vita: e l’intuizione pregevole di Pupi Avati è proprio quella di restituirci il fresco viso di un giovane che si potrebbe definire affettuosamente «uno sbarbatello» del tutto inatteso al grande pubblico, abituato da secoli a riconoscere il grande poeta fiorentino nell’arcigno profilo nasuto e un po’ musone. Invece il sorriso quasi ingenuo del bravo Alessandro Sperduti sorprende assai positivamente lo spettatore e regala al film un senso di leggerezza che altrimenti prenderebbe una piega eccessivamente solenne. Intrigante e ben studiato anche il percorso del racconto della vita di Dante, narrato da Giovanni Boccaccio (un ottimo Sergio Castellitto), incaricato dall’ingrato governo fiorentino di donare dieci fiorini d’oro come risarcimento tardivo e simbolico alla figlia del poeta, suora in un monastero di Ravenna.

Pour vous