09 giugno 2025

La banalità del sistema teatrale

Roma, 9 maggio 2025

CARO BISICCHIA, TEMO CHE IL SUPERFLUO SIA DIVENTATO IL NOSTRO NECESSARIO

Tra le tante notifiche che il cellulare mi elenca ogni mattina, poco prima del caffè, la maggior parte delle quali assolutamente superflue, ne trovo una che desta immediata curiosità: mi suggerisce che il professor Andrea Bisicchia ha pubblicato un nuovo post. Leggo subito e, pur se a malincuore, mi compiaccio per aver trovato in un’autorevole firma un validissimo alleato. Come scrissi il 25 aprile scorso (qui l’articolo), anche Bisicchia ha sentito il bisogno di porre l’attenzione (qui l’articolo) sulla quantità di spettacoli proposti in queste ultime stagioni, un numero esorbitante che crea disorientamento a discapito di una qualità coscienziosa e necessaria. Anzi, scrive l’esimio professore, «oggi sui palcoscenici domina l’eccesso che, per forza di cose, produce esemplificazioni, superficialità e confusione». All’abbondanza dei titoli in cartellone, il professor Bisicchia conferisce una dote d’inutilità superflua, un disordine di stili e di intenzioni, a danno di un più succulento gusto del necessario. Wilde sosteneva che, avendo il superfluo, si sarebbe potuto fare a meno del necessario, ma il sommo irlandese pensava a come farsi beffa delle sciocche difficoltà di un mondo reale, non imputando alla finzione del palcoscenico che, invece, «ci permette di esplorare l’umanità», la responsabilità della nostra laboriosa e complicata sopravvivenza.

Ed è proprio sul superfluo che andrebbe posto l’accento. Il superfluo – ce lo indica, appunto, il numero di notifiche che illuminano quotidianamente lo schermo del cellulare catturando la nostra concentrazione per leggere frasi inutili, notizie false, pettegolezzi tendenziosi, messaggi privi di senso – oggi è diventato il nostro necessario. Ci cibiamo di superfluo. Gli argomenti di conversazione più in voga, intorno a un tavolo di ristorante, per esempio, li offrono gli chef insieme alle pietanze: si discute del superfluo come condimento al necessario; e, a fine pasto, è il superfluo, edulcorato da gourmet, che fa lievitare il conto di una rustica carbonara. Questo è il nostro mondo: viviamo di vanità, «Sotto il vestito, niente», ricorda giustamente Bisicchia. D’altronde eliminare il superfluo, evitare le superficialità, è soltanto un tassello – il più artistico e impalpabile – di un ben più complicato puzzle che compone una stagione teatrale.

Bisogna far quadrare i conti: questa è l’unica necessità. I gestori dei teatri privati pensano solo a questa fondamentale esigenza che con il teatro è sempre andata in disaccordo. Il resto è un’accozzaglia di tentativi assemblati senza una vera logica, senza un progetto di fondo, senza un pensiero uniforme. Il cartellone di una stagione di un teatro privato, più che pubblico, si organizza con lo stesso criterio di una corsa di cavalli: ogni nome corrisponde a un’ipotetica cifra. Il che significa, quota fissa sul vincente e puntate minime sui piazzati. Così i Salemme e i Brignano sono i purosangue, imbattibili prima ancora di scendere in pista, mentre gli altri si devono accontentare di tre o quattro recite se riescono a eludere lo starter. È un sistema che non dà tregua; si comincia a fine settembre per finire a metà maggio con un galoppo estenuante. La maggior parte dei teatri privati propone due, talvolta anche tre, spettacoli a settimana, con attori che spesso tornano due o tre volte a stagione sullo stesso palcoscenico affrontando personaggi completamente diversi. Poi c’è chi recita in una sala, mentre in un’altra si occupa di una regia. C’è chi si trova a dover improvvisamente rinunciare a una trasferta perché c’è una produzione televisiva che lo richiede sul set: anche le serie tv si sono intromesse a complicare questa sarabanda. E c’è, infine, chi resta fermo al palo senza un briciolo di speranza, magari con un progetto coi fiocchi, ignorato per mancanza di opportunità o di adeguata considerazione.

La confusione è tale che tutto sembra essere decaduto a livello di banalità. Il sistema, infatti, prevede un tipo di superfluo per la gestione privata offerto, come già detto, dal numero dei titoli in cartellone per mancanza di fondi e la conseguente resistenza a rischiare, e un ben differente superfluo per i teatri pubblici e nazionali. Ai quali viene elargita – tra il Fondo unico per lo spettacolo (il Fus da parte del ministero) e i contributi europei a fondo perduto – una cifra piuttosto cospicua che però è viziata da un cavillo che impone lo spreco e genera altro superfluo: se gli enti che ricevono le sovvenzioni, infatti, non dimostrano annualmente di aver investito fino all’ultimo centesimo, l’anno successivo beneficeranno di una cifra minore. Ciò comporta che i direttori artistici dei teatri stabili sono ossessionati dal problema opposto a quello che affligge i colleghi «dei privati». Loro devono spendere tutto, altrimenti saranno declassati e non avranno svolto bene il ruolo di spendaccioni. Risparmiare è valore imprescindibile nel privato, ma nel pubblico diventa una questione quasi illegittima, una vergogna di cui ci si potrebbe pentire. E allora ecco che anche spettacoli grandiosi vivono l’espace d’un matin, gettati in un calderone comune a far numero e quantità, solo per assicurarsi la cifra più alta e spesso non necessaria. A meno che non si stabilisca che i denari superflui dati agli enti pubblici possano essere ridistribuiti alle gestioni private. Pura utopia di un sognatore. (fn)

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Foto: La platea del teatro Argentina (© ???)


 

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