LA FAVOLA DI RE MACBETH
Gli scambi culturali sono sempre positivi e saremo riconoscenti a vita di quest’opportunità che il Teatro di Roma offre al suo pubblico. Tuttavia, Macbeth è un testo assai complesso, e non è il solo sottoscritto a dirlo. La regia di Eimuntas Nekrosius ne fa uno spettacolo, certamente affascinante, ma d’elezione: ossia per eletti, per coloro che già conoscono la tragedia shakespeariana. In scena, gli attori del moscovita Teatro Taganka recitano in russo e questo non facilita la comprensione linguistica, malgrado si possa leggere la traduzione in alto, sul boccascena. Ma per assistere alla rappresentazione del regista di Vilnius bisogna essere preparati. Bisogna sapere chi è Macbeth, chi è la regina, chi è Banco e chi sono le streghe; non solo per il russo, ma perché la regia è strutturata in modo frammentario ed anche il testo tradotto, è riproposto a mo’ di aforismi.
Ebbene, malgrado questo preambolo che potrebbe far pensare a un atteggiamento critico da parte dello spettatore medio che poco sa di lingua russa, di Shakespeare e di Macbeth, dopo una prima parte leggermente ripetitiva, gli spettatori sono invitati a entrare nel disagio dei protagonisti che vivono un loro personalissimo dramma, una tragedia appunto, che però ha il sapore e la delicatezza di una favola per bambini.
La crudeltà del potere appare quasi come un gioco: magico e pericoloso allo stesso tempo. La mimica e l’espressione del fisico richiesti da Nekrosius ai suoi attori diventano esplicativi, molto più della dialettica. E ci si sofferma spesso con apprensione sul gesto anziché sulla parola detta (e per noi scritta). La poesia di Shakespeare la si coglie dalle immagini piuttosto che dalle didascalie. Questo accade non perché il linguaggio russo sia ai più sconosciuto, ma per la potenza drammatica che Nekrosius costruisce in scena, a volte con poco, ma sempre con poetica illuminazione artistica.
Mi chiedo, provocando me stesso: quando in scena appaiono tre pazze sciamannate che si agitano, che danzano, che dicono frasi senza senso, e poi arrivano due signori, dal rude aspetto di tagliaboschi, con uno zaino dal quale fuoriesce un arbusto sul quale spuntano germogli, gli spettatori che non hanno studiato il Macbeth, cosa afferrano di questa scena? Razionalmente direi, nulla. E allora il discorso si sposta dal razionale all’emotivo. La lettura di Nekrosius, concepita come una favola per immagini, dev’essere osservata assolutamente con gli occhi incantati di un bambino che tutto comprende fuorché le parole. Quell’arbusto, strappato al bosco, tornerà a formare un bosco: tutto questo Shakespeare non lo sa; ma Nekrosius così introduce la successione della dinastia di Banco, interpretando a suo modo il linguaggio delle streghe.
In realtà, traducendo l’operazione di Nekrosius in un linguaggio teatrale, si capisce che il regista russo, mentre racconta una favola ai bambini che non conoscono né Shakespeare né Macbeth, spiega ai dotti, ai saccenti e ai teatranti che cos’è l’intervento di regista, che io personalmente chiamerei filtro.
Giorni fa su un quotidiano è stata riproposta una lettera di Giorgio Strehler indirizzata a Roberto De Monticelli, storico critico del Corriere della Sera, nella quale il più grande regista teatrale di tutti i tempi scrive con «modesta grandeur»: «Il mio Gabbiano – riporto tra virgolette ciò che ricordo a memoria; le parole non sono esattamente queste – è davvero uno spettacolo eccellente, ma io non saprei scrivere una riga del copione di Cechov. Io so leggere. Nessuno sa leggere come me un copione teatrale. E io so riproporre come nessun altro quel che l’autore aveva in mente, perché so trovare la verità tra le parole...».
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Macbeth di William Shakespeare. Con il Teatro Taganka di Mosca. Regia di Eimuntas Nekrosius
Foto: La regia di Nekrosius (© ???)