24 aprile 2024

«La locandiera» di Carlo Goldoni

Sonia Bergamasco è Mirandolina

Roma, Teatro Argentina
23 aprile 2024

UN MINESTRONE DOVE TUTTO FA BRODO!

Esco da teatro talmente sconcertato e irritato che, prima di mettermi a scrivere, preferisco documentarmi. Pertanto leggo qualche recensione sullo spettacolo: per rispetto, ovviamente, non dirò quali, perché alcune sono assai peggiori di quel che gli occhi hanno visto all’Argentina. Vengo a sapere, con profonda tristezza, che una certa critica avanguardistica scopre soltanto oggi, quasi unanime, dopo 271 anni dalla pubblicazione, che Goldoni pone al centro della vicenda una donna: che gloria, che tripudio festante si alza al cospetto dell’eclatante notizia. Ci si meraviglia, dunque, e non poco, che nel 1753 un autore italiano di sesso maschile possa aver scritto una commedia in cui è protagonista niente di meno che una locandiera. E che gli intrecci che ella trama hanno tutti il fine di mettere in ridicolo gli umori mascolini. La notizia rende entusiasti, perché si può parlare finalmente dell’impegno civile, dell’emancipazione di una donna già capace allora di sconfiggere l’universo maschile, delle rivoluzioni sociali, e dell’atto profondamente politico che nasconde la scelta finale della donna, la quale sposa, non il ricco conte, non l’aristocratico marchese morto di fame, e nemmeno il cavaliere innamorato, ma un semplice servitore di nome Fabrizio.

Ecco, se si vuol ridurre l’opera di Goldoni, che è un capolavoro letterario tra i più raffinati ed eleganti, che è l’esempio perfetto della drammaturgia teatrale in cui forme e caratteri sono sezionati al microscopio dallo stesso autore, che è il ritratto di una «pupa» che s’innalza per finezza a burattinaio dei suoi «pupi», se si vuol ridurre – dicevo – questa, che è la Commedia italiana per antonomasia, a un comizio di piazza governato dall’ignoranza, scusate, un po’ mi altero. E poi ci si chiede che fine abbia fatto la critica? La critica oggi purtroppo è la misera voce delle beghine di partito, quelle che ripetono a memoria concetti che scorrono ogni giorno sul filo del passaparola dei social.

Ma veniamo a Latella che, con questa regia, molto s’è dato da fare per provocare questo indecoroso sciame di vespe. E allora mi chiedo: se Antonio Latella ha messo in scena la Locandiera di Carlo Goldoni per prendere volutamente in giro l’intellighenzia del movimento popolare che ha ispirato il politically correct e altre nauseanti fandonie, sono con lui e sono pronto ad appoggiarlo in ogni sua provocazione; ma siccome dubito fortemente che le motivazioni di questo allestimento senza logica siano spinte da uno spirito di ribellione, ne deduco che ogni scelta registica sia frutto di un’arte incompresa, almeno da parte mia.

«La scena si rappresenta in Firenze nella locanda di Mirandolina», dove, sotto un’agghiacciante luce al neon, a un tavolino (accerchiato da sedie di plastica verde e intrecciata, come quelle dei vecchi bar di provincia degli anni Settanta) il Conte di Albafiorita indossa tuta e scarpe da ginnastica; mentre, il marchese di Forlipopoli, un elegante pullover tirolese. Mah! Poi, in ciabatte infradito, entra il cavaliere di Ripafratta con un soprabito stile trench. I costumi in teatro sono importanti – per questo qualcuno chiese aiuto ad Adrian o a Travis Banton – perché delineano un’epoca, un carattere, uno stile, un ambiente, una cifra che denota una logica che qui, però, a me sfugge.

Mentre osservavo questi disordinati particolari più figurativi che sostanziali, mi sono ricordato della descrizione di una regia di Rainer Fassbinder, che nel 1969 propose una trascrizione della «Bottega del caffè» dove cow-boy in tricorno e lunghi stivali, armati di pistole, frequentavano un saloon western e una casa da gioco tenuta da un losco gentiluomo. Stramberie teatrali, lette in gioventù, che tornano alla mente quando un’immagine le richiama. Evidentemente un collegamento, anche inconscio, c’è.

Ecco, quindi, Fabrizio, il servitore, vestito di bianco, elegantissimo, fa da contrasto al resto della combriccola: sembra un giovin signore in partenza per una gita a Sorrento. Infine, arriva lei in sottoveste chiara, in déshabillé, a piedi nudi nella locanda: è Mirandolina che, avverte Goldoni, «fa altrui vedere come s’innamorano gli uomini. Principia a entrar in grazia del disprezzator delle donne, secondandolo nel modo suo di pensare».

Cari critici, che solo oggi scoprite una donna posta al ruolo di protagonista di una commedia del Settecento, badate bene che la locandiera descritta dall’autore, non è, come ce la mostra Latella, una che si presenta a cosce scoperte, ancheggiando sinuosamente per provocare con il suo bel fisico asciutto i tre avventori, ma è una femmina che ha un modo suo di pensare. Ha, quindi, prima di ogni altra velleità, un cervello e lo mette in mostra con le sue false lusinghe, compiacendo lo scettico e onorando il corteggiatore. È donna assai pratica, attenta ai vocaboli da usare, che sono le armi migliori per tendere la rete di seduzione. Se la signora in questione, invece, è una bella e avvenente bionda che, appena sveglia, se ne va in giro per la locanda mezza spogliata, il Cavaliere avrebbe più di una ragione a dire le donne «non le ho mai stimate»! La commedia, così come proposta, assume un altro significato, molto diverso da quello originale. Latella avrà i suoi validi intimi motivi per affermare di aver voluto omaggiare Pina Bausch e Massimo Castri, ma in questo modo dà l’impressione di voler tradire Goldoni.

E perché l’intera vicenda si svolge davanti a una inamovibile parete di legno, come fosse una baita di montagna? Per omaggiare Leonardo Lidi che l’ha proposta nello «Zio Vanja»? Improbabile! Dal lato opposto al tavolino, c’è un angolo cucina con piano cottura a induzione (funzionante), microonde e lavello. Una pentola rossa emana deliziosi profumi in platea: pare si tratti di un saporito minestrone. Quando la cuoca solleva il coperchio, qualcuno sussurra: «Me sta a veni’ na fame!». Tutto sembra realistico, eppure qualcosa negli ingressi non funziona. Se davvero si trattasse di realismo, colui che entra da destra dovrebbe trovarsi in cucina, mentre chi entra da sinistra nella sala. A un certo punto, però, chi arriva da destra si rivolge a quelli seduti al tavolo e non si capisce più niente: ciascuno occupa uno spazio dove i dialoghi che dovrebbero svolgersi in cucina si mescolano con quelli della sala e viceversa. Insomma, davvero un bel minestrone!

Quando arrivano le due commedianti, Ortensia e Dejanira, all’apparenza sembrano due educande vestite a lutto, in impeccabile tailleur nero. Il conte, quindi, per corteggiarle, sfodera un abito eccentrico e molto attillato, come si usa oggi; anche il marchese non sfigura, ma in questa contemporaneità i due continuano imperterriti a parlare di scudi, di ducati e di zecchini, le monete d’allora. Inoltre, mentre il Cavaliere gioca con i bastoncini cinesi, un servitore porta in scena una cassa acustica, la collega a una chitarra elettrica e suona un paio di note, non di più. Riprenderà poi lo strumento a chiusura del secondo atto soltanto per un arpeggio, prima che le due escort, di soppiatto, rubino l’attrezzatura, portandosela via alla chetichella. Senza alcun motivo. A proposito di musica: si ode la tromba di Miles Davis, quindi Mozart, e anche un po’ di elettronica. In questo minestrone tutto fa brodo!

All’improvviso Ortensia cede a un orgasmo epocale, tanto impellente quanto inarrestabile, ma senza che qualcuno l’abbia sfiorata. E vien da ridere, e non perché si tratta di una citazione cinematografica! Come si ride anche per lo svenimento della protagonista. Sì, perché la perdita dei sensi fa parte del personaggio originale: la donna delicata di temperamento, sorretta da sottile arguzia, appunto, svenevole. Supporre che un’ardimentosa, piena di sensualità, provocante e quasi disinibita, caschi «come corpo morto cade» è davvero poco credibile in quelle circostanze. E infatti, come a sancire il carattere diverso di questa locandiera rivisitata da Latella, dall’altra goldoniana, Mirandolina, che ha da poco ricevuto in dono una preziosa boccettina d’oro, s’abbandona, come una casalinga disperata, a un bacio appassionato tra i fornelli di cucina, abbracciando il Cavaliere. Se il bacio – che nel copione non c’è – arriva in quel momento è chiaro che il peso dell’oro ha fatto effetto su Mirandolina, esattamente come i denari del Conte hanno già corrotto le due commedianti di più facili costumi. Poco importa, se questa boccettina poi finisce temporaneamente nelle mani di un altro. Il danno è fatto e il minestrone non è riuscito come doveva! (fn)
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La locandiera di Carlo Goldoni. Con Sonia Bergamasco (Mirandolina), Lodovico Fededegni (il Cavaliere di Ripafratta), Giovanni Franzoni (il Marchese di Forlipopoli), Francesco Manetti (il Conte di Albafiorita), Marta Cortellazzo Wiel (Ortensia), Marta Pizzigallo (Dejanira), Valentino Villa (Fabrizio), Gabriele Pestilli (servitore). Scene, Annelisa Zaccheria. Costumi, Graziella Pepe. Musiche e suono, Franco Visioli. Luci, Simone De Angelis. Regia, Antonio Latella. Teatro Argentina, fino al 28 aprile

Foto: © Gianluca Pantaleo

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