Caricatura di Alexandre Dumas |
VITTIME E CARNEFICI DEL FASCINO DELLA JETTATURA
Ecco come un noto giureconsulto del Settecento, Nicola Valletta, partenopeo naturalmente, la trascrive nella sua Cicalata sulla jettatura (studio approfondito sul tema pubblicato per la prima volta nel 1787): «Venere, ancora verginella, uscendo dal mare, si andava spassando con tutti gli dèi, al punto da compiere con Bacco tal cosa che qui non si può dire. Intanto Giunone, giacché sterile e perciò incapace di produrre figliuoli, verde di bile e terribilmente gelosa, si trasformò in una vecchia ostetrica, con l’intenzione non di assistere al parto la bella Venere ma ammazzare il nascituro Priapetto, affascinandolo malignamente. Ed ecco che interviene Bacco che salva Priapo dalla tremenda jettatura … Sappiamo infatti che Priapo non aveva affatto piccina l’ascosa parte del corpo, innominabile per modestia, e che anzi per la enormità della proporzione … potesse allontanare i nefasti della jettatura, giacché destando riso e interesse, distoglieva gli occhi dei crudeli invidiosi». Accadde insomma che Bacco per proteggere il suo pargolo, lo fornì al momento del parto di un membro sproporzionato – oggi lo definiremmo per l’appunto priapesco – al fine di disorientare lo sguardo mortale della crudele ostetrica, la quale, stupita o forse attratta da cotanta generosità, rimase ella stessa affascinata e impotente. Da allora e per molti secoli, l’immagine del membro maschile fu il primo emblema da opporre al malocchio: si sovrapponeva alle porte delle botteghe, delle case, delle stalle, e finanche si appendeva – come ciondolo beneaugurante – al collo delle puerpere. Da qui la riproduzione del fallo prese il nuovo significato di simbolo della fecondità, lasciando al fallico corno l’eredità di proteggere dal fascino della jettatura.
Non potendo ostentare amuleti che una società più moderna avrebbe giudicato impudichi, i napoletani, e più di loro gli abitanti dell’entroterra, usavano attaccare, nelle loro abitazioni, sulla parete di fronte alla porta d’ingresso, un paio di corna con le punte rivolte verso colui che entra, sostituite poi dal più spiritoso cornetto di corallo tipico dell’epoca nostrana da fissare sopra l’uscio, punta rigorosamente verso il basso. Questi suggerimenti, e molti altri simili, si trovano nel volume intitolato La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano dato alle stampe nel 1832 proprio da quell’Andrea de Jorio, presunto responsabile della morte di Ferdinando IV, il quale probabilmente ignorava che la fama del canonico fosse anche frutto dell’interesse letterario che legava il De Jorio alla questione della jettatura. Segno evidente che non sempre la facile credenza popolare, intorno a personaggi rinomati come portatori di malocchio, abbia valide fondamenta.
Non sempre, però, non significa mai. Infatti, soltanto prendendo accurate precauzioni (prima di affrontare certi argomenti è consigliabile davvero effettuare opportuni scongiuri), possiamo raccontare di quel principe di *** – contemporaneo del De Jorio – il quale, forse ancora oggi, detiene il primato di uomo più pericoloso di tutti i tempi. Prima di lui, è vero, si leggono sin dalle scritture latine di potenti jettatori ma nessuno poté uguagliarlo: ci fu chi riuscì con uno sguardo a spezzare un tavolo di marmo solo perché fu lodato durante un banchetto; ci fu chi mirando in cielo il volo elegante di un falco lo fulminò all’istante; ci fu chi riuscì a opacizzare lo specchio nel quale si rifletteva tutte le mattine una deliziosa fanciulla che in pochi giorni divenne pure calva. Lo stesso Nicola Valletta racconta di quando, dovendo andare dal re per chiedere un sussidio per questioni professionali, incappò in un collega che scorgendo il memoriale su cui l’erudito aveva riassunto le specifiche da presentare al sovrano, con brusca cera, sentenziò: sarà difficile. «Allora io – scrive il Valletta – monto in carrozza e mi avvio verso la Villa del Re, in Caserta. E che cosa mi capitò? Tutto quanto di male può capitare in un viaggio: acqua dirotta, vetturino avvinazzato, un cavallo afflitto da dolori reumatici e, terribile a dirsi, mentre ero per accostarmi al Sovrano, per umiliargli le mie suppliche, ecco che non trovo più in tasca il memoriale gelosamente custodito».
Il principe di ***, dicevamo (seguendo il racconto di Dumas padre riportato nelle pagine de Il Corricolo), meno gli occhiali, la parrucca e la tabacchiera, immancabili accessori di ogni provetto jettatore, nacque con tutti i caratteri della jettatura. Ancora in fasce già mostrava connotati precisi: labbra sottili e naso uncinato. Particolari che non sfuggirono alla prosperosa balia la quale, appena il poppante le sfiorò il seno, perdette il latte; dacché la di lui madre spirò nel momento in cui mise alla luce il secondogenito. Celebrò la sua entrata in seminario con un’epidemia di tosse convulsa di cui soltanto lui, già miope e anemico, riuscì a evitarne il contagio. Seguì i corsi con gran successo, raggiungendo agli esami sempre il primo premio, tranne che in una occasione quando fu superato da un compagno che, mentre s’apprestava a ricevere la medaglia, inciampò in un gradino spezzandosi una gamba.
Re Ferdinando, sempre lui, sì, in un momento delicato del reame, intuendo che il trono fosse insidiato da un francese, certo Napoleone, annunziò che l’arcivescovo benedisse in pompa magna le bandiere borboniche in Santa Chiara. La cerimonia si preannunciava solenne: i collegi, le scuole e i seminari ebbero la concessione di mandare gli allievi più rappresentativi, i più bravi. Tutto si svolse con calma e grandiosità fino al momento della sfilata degli stendardi; fu allora che un giovane portabandiera fu colto da un colpo apoplettico cadendo stecchito davanti al nostro jettatore, il quale raccogliendo il drappo gridò: «Viva il re». Tre mesi dopo Gioacchino Murat entrò a Napoli prendendo la reggenza dell’impero napoleonico nelle Due Sicilie.
Passeggiando per Toledo con alcuni suoi colleghi il nostro bravo seminarista magnificò le magnificenze del San Carlo descrittegli da amici più adulti, e sospirando espresse il desiderio di voler assistere all’opera anche per conoscere le belle dame che frequentavano i palchi dorati; le sue parole inopportune arrivarono alle orecchie dei precettori che lo rimproverarono vietandogli assolutamente di andare a teatro. Il principino sfidò la superbia degl’istitutori: ordinò un vestito nuovo al sarto di famiglia, affittò una carrozza e raggiunse il San Carlo: l’indomani il teatro era un mucchio di cenere.
Il giorno seguente a quello in cui entrò come novizio in un convento furono soppressi gli ordini religiosi. Un evento devastante, perché non potendo più praticare la carriera ecclesiastica, il nostro entrò in competizione con il fratello maggiore, Ercole, già ambasciatore, aspirando anch’esso a un futuro da diplomatico. Debuttò finalmente in società nella prestigiosa villa di una nobildonna: appena fu pronunciato il suo nome all’ingresso, un cameriere scivolò con il vassoio dei gelati, banale coincidenza che non allarmò la contessa, la quale invitò il principe in giardino per mostragli la vista meravigliosa dei riflessi dell’incantevole cielo stellato da cui all’improvviso fulmini e saette annunciarono l’imminente arrivo del temporale, altra coincidenza sulla quale la padrona di casa dovette glissare optando per il concerto di una famosa cantante. La contessa, quindi, prese posto, nella sala della musica, su una poltrona i cui piedi posteriori non ressero al peso e la nobildonna ruzzolò all’indietro; il soprano dopo un paio di stecche fu colpita da un attacco di tosse e dovette arrendersi; quando la festa ormai turbata da queste continue coincidenze e gl’invitati imbarazzati cominciarono a fuggire, al principe venne la generosa idea di lodare la bellezza di un lampadario che durante la notte, nel salone ormai buio e per fortuna deserto, si stacco dal soffitto infrangendosi in mille pezzi.
Nonostante, come si è detto, tra fratelli non corresse buon sangue, il primogenito, rientrato a Napoli per qualche commissione, ascoltando per istrada alcune maldicenze (chissà quali!) da parte d’un giovanotto nei confronti del fratello minore, sfidò costui a duello per mantenere alto il nome del casato. Il principe Ercole era considerato tra i migliori spadaccini del tempo, ma il minore, cioè lo iettatore, insistette per fargli da testimone e in quattro stoccate il buon Ercole venne infilzato fatalmente al torace. In breve, per il troppo strazio, anche il vecchio padre si lasciò morire; e lui, il nostro principe addolorato e sconsolato, non trovando in Napoli altra consolazione, chiese ospitalità a un vecchio lupo di mare e s’imbarcò per Tolone. Lasciamolo per ora veleggiare verso nord-ovest a bordo del vascello francese in età ancora giovanile, ma il lettore sappia che, come ogni jettatore che si rispetti, morì alla veneranda età di novantaquattro anni e gli effetti catastrofici dei suoi sguardi e delle sue parole non conobbero tregue e neppure confini.
A noi non resta, prima di chiudere la prima parte di questa storia, che ripetere e osservare un’efficace filastrocca coniata, in latino maccheronico, da un anonimo buontempone partenopeo affinché la rievocazione del nostro principe jettatore non ci porti strane coincidenze: