SONATA PER STREHLER:
ALLEGRO CON BRIO MOZARTIANO
Nell’ambiente teatrale spesso si sentono ripetere frasi, trite e ritrite, che risalgono alla notte dei tempi. Una di queste, la cui origine però può essere rintracciata in epoche più recenti, suona così: gli abbonati hanno ucciso il teatro. Il qualunquistico modo di dire debuttò negli anni Settanta, quando la politica gestionale delle sale aprì a investimenti rapidi e sicuri promuovendo prevendite di biglietti per l’intera stagione: non si vuol dire che i signori abbonati siano degli «assassini» o siano stati chiamati per distruggere i teatri (sarebbe eccessivo!), ma significa che l’istituzione dell’abbonamento ha portato una malaria impiegatizia anche dove se ne sarebbe fatta volentieri a meno. Non so se lo stesso spento atteggiamento abbia contagiato gli abbonati dell’intera nazione, ma a Roma più i teatri sono storici più il pubblico sa di naftalina, è inespressivo: raggiunge la platea senza troppi entusiasmi; già nel foyer sembra costretto a un sacrificio, abituato com’è a restare seduto a casa in poltrona a fare zapping e soffermandosi su quei programmi in cui si litiga per un nonnulla.
Non che la colpa dell’attuale momentaccio teatrale sia da attribuire esclusivamente al pubblico, ma è decisamente triste sentire la necessità di scrivere un simile concetto associandolo, per di più, a uno spettacolo impeccabile e raffinato come La famiglia dell’antiquario di Goldoni messo in scena da Lluis Pasqual. Il regista catalano e i suoi collaboratori fanno parte di quella lista di nomi che rievoca ricordi di un teatro nobile; anzi, di più, nobilissimo: Ezio Frigerio per le scene e Franca Squarciapino per i costumi. Non si tratta, in questo caso, soltanto della scelta d’artisti d’indubbio valore per assicurarsi risultati di prestigio. C’è qualcosa in più di carattere sentimentale: voler rispolverare, da parte di Pasqual, un certo stile teatrale, lucidare una cifra dorata, rinverdire una sigla purtroppo quasi scomparsa. Frigerio e Squarciapino furono stretti collaboratori di Strehler e, di Strehler, Lluis Pasqual è stato allievo. Dunque, non è difficile intuire il desiderio emotivo del discepolo di riproporre la maniera di far teatro del grande Maestro. E allora basta poco per riconoscere come e perché sono state disegnate quelle scene, come e perché sono stati ideati quei costumi, come e perché è stato pensato proprio quell’impianto illuministico e come toni e parole del testo sono stati equilibrati tra gli attori.
L’allestimento di Lluis Pasqual non è soltanto un revival, fine a se stesso, di un buon teatro, ma assistendo allo spettacolo si percepisce una consistenza d’autore, qual è il regista di razza. C’è un’idea di base imbastita e poi rifinita con estrema lucidità e delicatezza, senza inciampare mai né in esibizionismi inutili, né in esagerazioni troppo ricercate e soprattutto evitando quei contorsionismi intellettuali che rendono astiose anche le commedie più semplici e pertanto piacevoli. Differenze di casta, contese, litigi, intrighi e beffe: c’è tutto in questo scrigno goldoniano confezionato con la naturalezza e artificiosa disinvoltura dalla mano del regista. L’idea di spalmare l’azione, raccontata da Goldoni, nell’arco di oltre tre secoli è assai pregevole, addirittura insinuante e seduttrice: infatti non si manifesta immediatamente, ma come una maliarda si scopre poco alla volta.
Al termine di ogni scena la parete di fondo si apre e si richiude senza che accada nulla di sostanzioso, ma una sedia aggiunta, lasciata lì – potrebbe sembrare – a caso, comincia a segnare il tempo come un orologio epocale. Alcuni rappresentanti del pubblico degli abbonati a questo punto, si sono chiesti: «Ma perché continuano a cambiare una scena che è sempre uguale?». In questa domanda si può facilmente riconoscere tutta la capziosa malformazione mentale che il tipo impiegatizio porta con sé in teatro; tutta la spavalda ignoranza sentimentale in cui s’avvolge.
Ma né Pasqual, né tanto meno Goldoni, sembrano preoccuparsi di queste tipiche patologie da teledipendenza, preferendo restare concentrati sul palcoscenico dove i personaggi della commedia accompagnano il trascorrere delle epoche cambiando la moda dei propri abiti: dalle parrucche del Settecento agli occhiali da sole all’ultimo grido; dai vestiti tutto pizzi, tulle e volant ai jeans e pantaloni attillati di pelle. I costumi, però, passano come passano le mode; scivolano via, scena dopo scena, davanti all’occhio distratto dell’abbonato, e restano soltanto le sedie, tutte diverse l’una dall’altra, ognuna a simboleggiare un’età, ognuna a rappresentare un mondo, ognuna a ricordare una perfidia, un inganno. La sensibilità del regista sta nel voler lasciare un segno evidente che si manifesta soltanto al finale, quando si assiste alla rappresentazione proprio di uno show televisivo (guarda caso, tra quelli preferiti dai teledipendenti!), dove i panni sporchi non si lavano in famiglia ma pubblicamente, risciacquandoli con insulti e minacce davanti alle telecamere.
Nella foto: Virgilio Zernitz, Enzo Turrin, Eros Pagni, Anita Bartolucci, Paolo Serra, Gaia Aprea (© Tommaso Le Pera)