UNA INDIMENTICABILE SERATA CON VITTORIO E CARMELO
È un raffinato giocoso pretesto il Don Chisciotte proposto da Franco Branciaroli che rende doveroso omaggio a due suoi grandi amici. È uno spettacolo costruito sul filo del privato, quasi un’esigenza intima di dar voce a due geni del palcoscenico di ieri. Branciaroli lo abbiamo imparato a conoscere: sa essere uno straordinario attore. Nessuno, più di lui, nell’ultimo ventennio, seppe cogliere meglio l’animo di Otello; e, pur se difficile da immaginare, arrivò a sfiorare con atteggiamento poetico quello di Medea; incantevole spregiudicato in «Finale di partita». Fin qui Branciaroli, come attore, s’è sempre sacrificato, reprimendo parte di se stesso, per mettersi al servizio dei personaggi; in questo «Don Chisciotte» (spettacolo da lui ideato, costruito e diretto, oltre naturalmente che interpretato) s’è invece immolato per portare in ribalta – prima di ogni altra cosa – i valori dell’amicizia e della gratitudine.
E chi sono loro? Sono ricordi di persone che non riusciamo più a scrollarci di dosso, anzi da dentro, perché fanno parte di noi; sono i ricordi di quelle persone apparentemente morte che convivono con noi perché il nostro continuare a pensare si è sposato con il loro pensiero. Parliamo e non ci accorgiamo che le parole dette sono nate dalla fusione ideologica del nostro familiare; pensiamo e non ci accorgiamo che le nostre riflessioni scaturiscono dal sodalizio intellettuale ed emotivo con costoro. Arriviamo a pronunciare (muti, e non soltanto) il loro nome infinite volte al giorno. Dialoghiamo con loro e ci lasciamo suggerire i gesti, il da fare, il da dire. Cerchiamo consensi nella loro assenza come non avevamo mai fatto prima, quando era possibile.
Così, mentre Vittorio Gassman, al meglio del suo istrionismo, è riuscito a portare in scena il personaggio Don Chisciotte mandando giù biondo whisky per sciogliersi la lingua impastata dalla noia del Paradiso, e dando sfoggio della sua più irritante simpatia; Carmelo Bene, investito delle sorti del fido scudiero Sancho, tra un sorsetto di gin e un ammiccamento intellettuale, non ha faticato a dimostrare di essere più scaltro dell’altro, culturalmente più preparato e anche più moderno. Un gioco perverso da cui Branciaroli sembra essere stato paradossalmente estromesso, schiacciato, ridotto a ballerino (per di più, sfacciatamente pessimo) d’un ritmo sudamericano stonato dal contesto. E fuori tema, cioè lontano dal concetto della rappresentazione dello spettacolo donchisciottesco che trionfa sul manifesto, fuori tema, dicevo, è pure la scena: un bancone da bar sovraccarico di liquori, e una poltrona, elementi casalinghi che ricordano una serata trascorsa insieme. A questi fanno da cornice due sipari che avvolgono gli arredi, e che oltre a rafforzare l’idea della teatralità, danno un tocco d’impalpabile regalità che potrebbe giustificare, o gratificare, l’idea di un angolo di Paradiso, dove fa capolino anche lo spirito di Dante. Il quale, per il titolo di miglior dicitore dei suoi versi, boccia i due contendenti per promuovere il terzo incomodo, Giorgio Albertazzi.