TUTTI AL MURO I FALLITI DI LIDI
La seconda tappa del progetto di Leonardo Lidi su Cechov accende i riflettori su Zio Vanja. E non è soltanto un modo di dire: la scena e le luci di Nicolas Bovey, infatti, sono state pensate proprio per illuminare, sotto un faro processuale, la tragedia dell’immobilità drammatica e della conseguente infelicità. Anton Cechov, con «Zio Vanja», vuol rappresentare la società dei falliti, di coloro che vivono dei loro piccoli egoismi, crogiolandosi nella vanità del rimpianto. «Bisognerebbe dare più fiducia agli altri, sennò la vita diventa insopportabile», avverte Sonja, alludendo alla sola luce di speranza. Anche in quest’opera, come in altre del repertorio cechoviano, il concetto del lavoro è visto come unica possibilità pratica di fuggire l’infelicità: «La noia e l’ozio si contagiano», dice ancora Sonja, voce del futuro, la quale avverte che al di là dell’infelicità ci potrebbe essere una vita migliore. Un cammino che però nessuno vuole affrontare; meglio tornare alle tristi certezze di sempre. Quindi, meglio star fermi anziché muoversi.
E a questo deve aver pensato Lidi quando ha immaginato la scena per l’allestimento. Una solida barriera che, pur se viene accarezzata o picchiata, resta una parete senz’anima, impassibile e impenetrabile, dove la vita non potrà mai attecchire. Dove i personaggi, pensati dal regista, attendono una irrevocabile condanna a morte. Sarà, sì, un muro di legno di betulle a cui ci si ispira per immaginare un’esistenza migliore, sana ed ecologica, ancora non deturpata dai mali del progresso, ma anzi governata dall’ordine della natura, dai suoi ritmi e dalle sue bellezze, ma è pur sempre una parete che teatralmente toglie profondità all’esistenza dei personaggi che restano bloccati per un’ora e quaranta – spalle al muro – a non far nulla.
Di conseguenza anche l’occhio dello spettatore si sente schiacciato dall’impossibilità di entrare nel dramma, come se restasse in superficie a osservare una lettura a tavolino di una commedia da allestire. Ovvio che manchi il tavolo! Ma manca soprattutto il samovar, elemento simbolico fondamentale di questa tragedia che si svolgerebbe, secondo l’autore, tutta intorno alla irritante cerimoniosa tranquillità del rito del tè. Il samovar è l’ipocrita custodia dell’anima del dramma: in esso l’acqua bolle e ribolle in continuazione, senza che mai nessuno possa vederla, così come i sentimenti di ciascun personaggio sono contenuti nella scatola scenica in attesa della detonazione. Lidi, invece, innalzando la parete, annulla questa scatola, portando tutto in ribalta, come una proiezione su uno schermo piatto della raffigurazione immobile degli apostoli di… Leonardo! Tutti in attesa di una nuova vita che, per loro – con un Giuda, ma senza un Cristo – non arriverà mai.
Tuttavia sono apostoli ben dipinti, anche con colori sgargianti e costumi insoliti. Cechov scrive nel 1897, Lidi legge nel 1960 – un famoso successo musicale dei fratelli Farina, meglio conosciuti come Santo & Johnny – fa da entr’act. Aurora Damanti si attiene all’epoca indicata con un tocco di maestria, forse eccessiva, pure leggermente inquietante per un Cechov, ma dopo un’ora e quaranta (ripeto) di immobilità, i costumi hanno il pregio di restituire aria di teatralità all’intera operazione, come nostra «unica possibilità pratica di fuggire la noia e l’infelicità».
Oltre al samovar, infatti, mancano tutti gli altri oggetti, per cui resta all’immaginazione dello spettatore figurarsi come sarebbe stata l’azione, per esempio, quando la balia dice di dover togliere il samovar dal tavolo; quando la boccetta delle gocce passa di mano in mano e invece appare una margherita come nei migliori giochi di prestigio. Poi però, al finale, la pistola è davvero una pistola: allora in sala – noi – dobbiamo fare i conti prima con il simbolismo, poi con il surrealismo e infine con il realismo.
Ma quel che è più grave, e che toglie credibilità a una buona parte della visione del dramma, è che manca soprattutto la bruttezza di Sonja. Malgrado un buffo tentativo di imbruttire il viso di Giuliana Vigogna, l’attrice non perde il suo fascino: imbronciata dall’ingenuità infantile di un amore non corrisposto, i suoi sguardi si riempiono di tenera e dolce bellezza esaltata dalla luminosità della ribalta. E quando rivela che la gente del posto dice di lei «peccato che sia brutta», molte delle ipotetiche ragioni d’infelicità scivolano nel dubbio. Insomma, ci si crede poco. Comunque brava ed efficace: interpreta il personaggio con una logica assai poetica.
Gli attori sono tutti di ottimo livello. Massimiliano Speziani restituisce uno zio Vanja, eccentrico e surreale, ma anche ironico, sia nei corteggiamenti che in preda al delirio nevrotico. Tenero e pacioccone il Teleghin di Giordano Agrusta, a cui è stato tolto lo strumento, un furto del quale il personaggio risente, come se gli fosse stata strappata una parte dell’anima. Da segnalare anche la tata in bigodini di Francesca Mazza, assorta nelle nostalgie, rapita dai lampi di una vita che fu, quando cucinava i ravioli (sic!): a tal proposito resto curioso di sapere quale attinenza ci sia tra vodka e tè, bevande tipicamente russe che si consumano in scena, e i nostrani ravioli! Due mondi troppo differenti.
Mario Pirrello costruisce il suo Astrov donandogli una fetta abbondante del carattere di Lopachin (colui che cura e acquista il giardino dei ciliegi andato all’asta): la sua affettuosa irruenza, la sua infruttuosa ribellione nei confronti della tradizione da cui, però, non riesce a liberarsi (e l’affetto che nutre per la tata lo conferma) delineano con potenza il contrasto interiore che porterà tutti all’infelicità generale. L’accostamento tra i due potrebbe sembrare audace, ma funziona: in quella camicia gialla che indossa con falsa disinvoltura si rivedono le scarpe gialle del figlio del contadino del «Giardino».
Foto: © Andrea Veroni