SIGNORI, VI PRESENTO LA VOSTRA COSCIENZA
Uscendo dal teatro Arcobaleno di via Redi, dopo aver assistito alla Curiosa storia di Luigi Pirandello, il primo istintivo pensiero è stato quello di imboccare via Nomentana, voltare a destra e, comodamente a piedi, in appena cinque minuti, risalire via Bosio, sempre sulla destra, per raggiungere Pirandello a casa sua. Non saprei dire come mi avrebbe accolto: se come un suo ammiratore, un amico o come un semplice seccatore, o magari come personaggio. Io invece avrei voluto confessargli che, grazie a lui e con lui – con le sue parole, voglio dire – ci sente meno soli, si avverte vivo il senso dell’intelligenza, e soprattutto si ha l’impressione di ritrovarsi più vicino alla gente in strada, quella che ormai troppo spesso, oppressi come siamo dal caotico mal di vivere, non riusciamo più a sopportare. E avrei voluto dirgli, anche, che dopo tanti anni di confidenziale frequentazione letteraria, mi sono convinto della sua sacra missione su questa terra: con i suoi pirandellismi, infatti, egli ci predispone, ogni volta lo si ascolti, alla ragionevole comprensione dei nostri simili. Un miracolo che riuscì, in parte, soltanto a Gesù Cristo.
E se lui, fine narratore dell’umanità moderna, ha bisogno d’attaccarsi alla vita degli altri per dare consistenza alla sua sensibilità, io, essere comune, sento la necessità di attaccarmi alle sue parole per comprendere prima di tutto me stesso: i miei errori, le mie colpe, le mie vergogne, le mie immoralità e tutto ciò che mi condiziona l’esistenza. Però esigo che sia lui a svelare me a me stesso, con il suo fine ragionamento da letterato (e non da medico dei pazzi), e con il suo linguaggio elegante, dolce e convincente, anche quando è severo e spietato e mi ricorda che la verità è una prigione, sia quando la si ascolta, ma soprattutto quando la si dice: infatti, ammette – con il candore di un bambino – che ci sono cose che non si possono dire, perché è facile perdersi nella banalità del male quando non si ha la coscienza di sostenerle. Oppure quando, per un caso sciaguratissimo, egli mi sorprende all’improvviso in uno di quegli atti che, appunto, non si possono dire, a cui io resto agganciato e sospeso finché la mia stessa coscienza non si redimi per davvero.
Il testo costruito da Giuseppe Argirò e riproposto da Giuseppe Pambieri è, nonostante un involontario «imbarazzo del leggio», essenzialmente questo: un grande omaggio al nostro drammaturgo per eccellenza; è il racconto della vita di un’anima a cui piaceva visitare l’indole, il carattere e la mente di ciascuno di noi; è l’epopea in nuce di un’umanità costantemente allo sbando tra ipocrisia e follia, e tra finta magnanimità e autentica meschinità. Ascoltando il racconto di Pambieri ci si accorge che Pirandello siamo noi. Tutti noi, ciascuno a suo modo.
Per carità, il riferimento al leggio non vuole essere una critica negativa allo spettacolo, anzi, addirittura se ne intuisce la necessità della presenza di un libro che parli, e si comprende pure che quel libro è Pirandello, il quale amabilmente chiacchiera delle sue cose che sono le nostre cose; e non è, quel libro, uno dei tanti personaggi accorso lì per rivivere il suo dramma da rappresentare sulla scena. Tuttavia, proprio per l’interprete – un attore come Pambieri abituato a portare la sua voce al pubblico – un leggio posto tra sé e la platea lo obbliga a restare appartato, distante, separato, un po’ nascosto e con lo sguardo costantemente rivolto verso il basso, ad occhi chini; tanto che a un certo punto mi sono concesso l’impudenza di socchiudere i miei per estraniarmi dalla realtà che mi circondava e poter godere maggiormente del linguaggio di un maestro della meravigliosa lingua italiana.
Pubblicato anche su Quarta Parete il 24/10/22