21 aprile 2024

«Femininum Maskulinum», di Giancarlo Sepe

Roma, Teatro La Comunità
20 aprile 2024

«IN QUESTO MONDO C’È POSTO PER TUTTI»

Lo spettacolo di Giancarlo Sepe, in scena alla Comunità soltanto ancora per oggi (e speriamo che venga ripreso), è denso di storia: è pensato sulla storia ed è costruito sulla storia, ma va al di là della storia perché nasce da un’esigenza attuale. Femininum Maskulinum è un grido alla ricerca di naturale giustizia o di naturale equilibrio; un grido che ruba la forza alla parola, e si concentra sull’efficacia dell’immagine. Grazie all’impegno di dodici splendidi attori, Sepe rappresenta il suo copione sviluppandolo come fosse una pellicola a cui è stata strappata la banda del dialogo: rimangono, qua e là, sparse delle frasi, con parole pronunciate un po’ in tedesco, un po’ in italiano, un po’ in inglese. Il vero sonoro è composto dalla musica che delinea le epoche, le atmosfere, finanche la longitudine terrestre e quell’altra, più raffinata, della sensibilità umana.

Si comincia con due corpi nudi, fuori da ogni luogo e da ogni tempo, che potrebbero essere quelli ancora felici di Adamo ed Eva, beati nell’Eden, che però vengono colti all’improvviso dal freddo che li obbliga a ricoprirsi, ma non con la foglia di fico (che è asessuata), ma con abiti femminili e maschili che loro indossano prima con criterio e poi ribaltando la logica: lei prende i vestiti di lui e viceversa. E già a questo punto Sepe mette a segno il primo colpo: perché maschio? perché femmina? Perché codificare un genere attribuendo all’uno o all’altro un abito che poi – per come va la storia – diventerà per forza una divisa? La teoria di Sepe è sorretta da una canzone tedesca del 1924, e che, non a caso, si intitola Maskulinum/Femininum in cui un essere maschile confida al femminile qualcosa di molto intimo «tu sei un femminile, ma molto maschile, io sono un maschile, ma molto femminile. … Perciò caro femminile, sii tu il mio maschile, io sarò il tuo femminile». Ecco il naturale equilibrio che Sepe ricerca nella sua visione tra i generi.

Per illustrare la sua idea, il regista/autore pone Adamo ed Eva direttamente nella cornice della Repubblica di Weimar, un periodo apparentemente felice e distensivo a cui, però, segue l’epoca più buia dell’era moderna: l’ascesa di Adolf Hitler. Il contrasto tra bene e male è talmente repentino che l’assurda lotta tra l’inizio del potere del singolo e la fine della libertà di massa si consuma in un arco di tempo strettissimo e quindi violentissimo. I quadri si alternano con armonia, sempre accompagnati da una canzone o da un ritmo che indica il grado di serenità della popolazione, la spensieratezza, la trasgressione raccontata un giovanissimo Billy Wilder. Due donne ora si baciano, e pare sia concesso. Un attimo dopo due uomini si baciano, ma indossano la divisa e devono nascondersi: i baci, dunque, sono proibiti, ma le esigenze restano. Allora diventa una questione di libertà dell’essere. È il secondo colpo che Sepe assesta.

Una donna distende una stoffa rettangolare al centro del palco mentre si sente scrosciare il rumore dell’acqua: è il richiamo per alcune coppie pronte a tuffarsi nel fiume; e par di vedere il seguito nascosto del quadro di Renoir, la colazione dei canottieri: l’atmosfera è molto simile, gioiosa, festante, piena di cicaleccio felice, tutti in costume sotto il sole, a ridere e scherzare. Pure in platea si tira un sospiro di sollievo perché si assiste a un momento di grande bellezza per l’umanità, dove il respiro della vita è pieno, senza divieti, senza paure, senza alcuna necessità di dover apparire bianco o nero, uomo o donna. Ed ecco che in questa beatitudine arriva sorridente anche il gioiello dell’intelligenza, il vate della cultura, Thomas Mann, premio Nobel nel 1929. Mann rappresenta il fiore all’occhiello di questa Germania, ne incarna lo spirito umanistico, colui che meglio seppe conciliare arte e letteratura. Scrittore e intellettuale che riuscì con il Tonio Kroger e con La morte a Venezia a far breccia sul tema dell’omosessualità. E molti, con lui, cominciarono a sognare.

Poi però ci sono quelli che rubano «i nostri sogni» e tutto cambia. Arrivano i mitra, le urla, gli spari. Dietro una porta si nasconde un gruppo di ebrei. Thomas Mann fugge in America, la cultura piomba nel buio. Il terrore mette fine alla gioia e all’intelligenza. È il terzo colpo: il più duro. Quello che trasforma il piacere in violenza. Quello che annienta l’esigenza dei baci. E quello che vede il Fuhrer violare la nipote Angelika. La libertà diventa un sogno.

Si diceva, all’inizio, della pellicola senza parole: una sensazione che arriva subito, appena i due corpi cominciano a vestirsi e poi a spogliarsi. È una sensazione che al finale trova la sua ragione. Durante tutto lo spettacolo, costituito per lo più da immagini, aleggia l’anima di Chaplin: nei movimenti degli attori, nei gesti repentini, nei ritmi delle camminate «a vuoto», negli scontri, negli abbracci, nei sorrisi. C’è il Chaplin Charlot e c’è il Chaplin dei film, e c’è il Chaplin che interpreta Hitler, il quale, a conclusione di quel capolavoro che è Il grande dittatore dice nel suo discorso al mondo: «Vorrei aiutare tutti se possibile, ebrei, ariani, uomini neri e bianchi, tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l’un l’altro…». L’Adolf Hitler di Sepe è meno loquace, ma esprime lo stesso concetto: «Pensiamo a come stare insieme, a come fidarci del prossimo», salvo poi a dubitare – stringendo una bandiera stelle e strisce – «e se questo prossimo poi ci minacciasse?». È l’ultimo fendente che Sepe tira: l’America che salvò l’Europa potrebbe non essere il paese perfetto, potrebbe addirittura essere la nuova minaccia.

Ancora Chaplin fa dire al suo dittatore: «In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi, la vita può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato… ci siamo chiusi in noi stessi…» L’alter ego di Sepe invita tutti gli uomini ad amare le donne perché loro sono – come ha stabilito la natura – «il veicolo per la nostra sopravvivenza». Giancarlo Sepe con Femininum Maskulinum compone un inno alla libertà, che non si limita a una libertà di genere, che non è una libertà politica né sociale, e non è neanche una libertà di parola, ma liberi di essere come si è. Una forza libertaria secondo natura, perché «In questo mondo c’è posto per tutti, … ma noi lo abbiamo dimenticato». (fn)
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Femininum Maskulinum, uno spettacolo di Giancarlo Sepe. Con Sonia Bertin, Alberto Brichetto, Lorenzo Cencetti, Chiara Felici, Alessia Filiberti, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Giovanni Pio Antonio Marra, Riccardo Pieretti, Alessandro Sciacca, Federica Stefanelli, e con Pino Tufillaro. Musiche di Davide Mastrogiovanni. Scene di Carlo De Marino. Costumi di Lucia Mariani. Luci di Javier Delle Monache. Regia di Giancarlo Sepe. Teatro La Comunità, oggi ultima recita, h. 17.00

Foto: © Tommaso Le Pera

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