Giuliana Vigogna e Christian La Rosa |
Darwin nella stanza della signorina Giulia
Se il naturalismo letterario e artistico ha lo scopo di mantenere in scena un atteggiamento realistico; se il naturalismo invocato da Zola (1880) invita a rispettare sulla scena i dettagli dell’ambiente che sono determinanti per il comportamento dei personaggi; se è vero che Strindberg è considerato il capostipite del teatro naturalistico, La signorina Giulia, presentato dallo Stabile umbro, al Vascello di Roma fino al 16 ottobre, per l’adattamento e la regia di Leonardo Lidi, non ha nulla di tutto questo: recitazione, movimenti e soprattutto l’impianto scenografico fanno pensare piuttosto a un teatro decisamente astratto, quasi metaforico. Lidi, infatti, impianta la sua regia (che lo indirizza inevitabilmente a un adattamento del testo originale) partendo dall’idea dello spazio/tempo che soffoca le esigenze della nostra vita; un concetto che l’opera di August Strindberg certamente contiene, benché sviluppata in maniera molto diversa. Pertanto i tre personaggi del dramma, quando rispettano i loro ruoli, sono eretti, cioè, godono di una posizione che Darwin (che del naturalismo artistico fu l’ispiratore) definirebbe da homo erectus, mentre quando gli stessi ambiscono a liberarsi della loro posizione, a uscire dai propri confini sociali, eccoli costretti a una postura ricurva, molto simile a quella delle scimmie.
Così si evince che il servitore del conte, il giovane Jean, avrebbe tutte le intenzioni dell’arrampicatore sociale, vorrebbe scalare la piramide per acquistare egli stesso un titolo nobiliare («che in Romania è possibile comprare», dice entusiasta), ma da solo non ci riesce perché trattenuto dalla sua condizione di servo; e non ci riesce nemmeno chiedendo aiuto alla cuoca, Kristin, la sua fidanzata. Poi appare lei, giovane, bella e «pazza» per definizione, perché l’unica ribelle possibile. È la signorina Giulia, la figlia del conte, anch’essa in preda al mal di vivere, sconfortata da un’esistenza cinica e crudele, con un gran desiderio di evadere e di contrastare le regole di una famiglia eccessivamente puritana. La sua ribellione, quindi, consiste nel sedurre il maggiordomo Jean, cosicché insieme riescono a saltare la barriera dei rispettivi ruoli sociali per vivere le loro emozioni in maniera scimmiesca, costretti in uno spazio soffocante e scomodo. Ma, suggerisce il regista, «quando lo spazio è troppo piccolo fai l’amore con chi c’è, contendendo l’unico uomo all’altra donna». E se quello spazio angusto diventa anche metafora temporale (sia Julie che Jean sono giovani e hanno voglia di evadere e sono coscienti che quello è l’attimo da cogliere che fra poco svanirà), allora ogni passione diventa esagerata ed esasperata, addirittura disperata, e ogni previsione di cambiamento sarà inevitabilmente un sogno pronto a svanire in un’atroce delusione, motivo per cui ci si affaccia sul baratro di un’unica soluzione: «restiamo qui», dice il servitore nonostante il disagio. In fondo, quell’angolo scomodo, pur se li obbliga a mantenere posizioni disumane, resta il più protettivo, tenendoli al sicuro da quel che fuori potrà dire la gente. Lì, accanto a loro, è rimasta soltanto Kristin, mai piegata dalle tentazioni, la quale, anche se distesa, cerca di nascondersi a quel disdicevole atto sacrilego compiuto dal suo uomo e dalla signorina che però «è pazza». Kristin cerca di riportare Jean con i piedi per terra, perché lui sa che quello è il suo posto: infatti, il servitore salta giù con un gran tonfo, tornando finalmente dritto, anche se la luce del sogno si spegne all’improvviso.
Foto: Giuliana Vigogna, Christian La Rosa (© ???)