NEL CUORE DELLA NOTTE IL FIORE DELL’AMORE DIVENTÒ PUGNALE
Cloris Brosca e Gianni De Feo sono Maria d’Avalos e Carlo Gesualdo, vittima e carnefice di un rito che si ripete nel tempo
«I sicari mi fecero carne da macello», grida la Maria d’Avalos di Roberto Russo che, nella sua personalissima trascrizione della tragedia, fa incontrare i fantasmi dei due sposi, in un luogo poco definito, a notte fonda, in una terra desolata che forse è piazza San Domenico, o chissà. Sono trascorsi molti anni dalla notte del massacro (cfr. presentazione del 20 febbraio) nel sontuoso edificio del Duca di Torremaggiore. Dalle indicazioni suggerite dagli oggetti in scena e dal miscuglio dei costumi indossati dagli attori, è facile pensare che siamo in epoca contemporanea. Il Palazzo ora è intitolato al Principe di Sansevero. Anche lui naturalmente è già morto, e il famoso Cristo velato, adagiato nell’adiacente cappella, richiama ogni giorno torme di turisti che fra qualche ora giungeranno. La fragranza delle sfogliatelle di Scaturchio profuma la piazza già prima dell’alba, mentre Maria (una tormentata Cloris Brosca) è sempre lì, dopo oltre tre secoli, che si dispera in un affanno muto. Sul viso ancora la bellezza segnata dallo strazio.
«Todo vuelve a la memoria», sussurra Carlo Gesualdo guardando sua moglie. Negli occhi s’intravede ancora la ferita d’amore. E d’amore parlano ancora i loro sguardi. Poi, come se snocciolasse un rosario, il principe, sotto il peso dell’ignominia, in un angolo, si raccoglie in preghiera: «Rosa, rosae, rosae, rosam… rosae, rosarum, rosis…», ma lei trova la forza razionale di donna per contraddire il passato e accusare il presente: «Non pronunciare amore se dici rosa, perché la rosa non ci ama». Maria più di Carlo sa che la rosa dell’amore è stata tradita dopo quell’atroce notte. E quel fiore, che da sempre è la romantica allegoria degli innamorati, diventa subito il simbolo opposto all’amore, dove le spine fortificano il narcisismo e l’orgoglio: così muta nel suggello dell’arma con la quale lei è stata sventrata.
L’attenta regia di Gianni De Feo privilegia le parole del testo di Russo, lasciando all’astrazione della notte la cornice dell’ambiente (la scena e i costumi sono di Roberto Rinaldi). Sul fondo, in alto, un angelo che riverbera la luminosità delle stelle trattiene due strisce di sangue che idealmente lega la coppia. Sotto il giudizio severo dell’angelo si avvicendano, nei ricordi di Maria e di Carlo, quasi tutte le persone coinvolte nel duplice assassinio: ciascuna rimembra quel che ricorda di un processo fuori dal tempo, in un’oscurità che protegge i segreti dei protagonisti irraggiati con dovizia e precisione. Ottima la scelta del regista di illuminare quel tanto che basta, lasciando il palcoscenico nel nero della notte e della morte.
S’assiste alla confessione di Laura, che ammette al padre gesuita d’essere stata lei la ruffiana. Poi si ascolta l’impeccabile deposizione di Silvia, l’altra fantesca di Maria. E attraverso questi racconti che giungono come voci di ombre che vagano nell’oscurità, la storia rivive nei nomi di Fabrizio, di Giulio, d’ ‘o prevetariello, e la tresca amorosa viene nuovamente messa sotto inchiesta: entrambi si accusano di tradimento davanti ai colori dei sentimenti che mutano in continuazione, come quelli del cubo di Rubik che Gesualdo maneggia con disinvoltura.
Torna viva e incandescente la descrizione degli ultimi istanti, con i sicari che entrano in camera di Maria, e uccidono gli amanti nel letto, colpendoli ripetutamente. Stavolta l’assise che fa da sfondo al dibattito non ha banchi dove giudici e avvocati decidono delle sorti degli imputati, ma soltanto qualche leggio che ospita gli interventi degli altri personaggi (sempre Brosca e De Feo in scena) immaginati dagli sposi. Sono loro a misurarsi quali vittima e carnefice. Infine, quando l’invettiva investe la scelleratezza di Carlo che con un’alabarda si scagliò, senza pietà, contro i cadaveri di Maria e di Fabrizio, la lotta tra sacro e profano viene enunciata sulle belle note moderne di Alessandro Panatteri, che oltre ai madrigali ha accompagnato la vicenda con temi più moderni. Poi finalmente, un’improvvisa catarsi soffoca le pene del confronto, quando le anime, stanche di soffrire, decidono di mettere fine all’odio: «Dammi pace e ti darò pace». Entrambe rinunciano al male e tornano, avvolti nel loro stesso sangue, a guardarsi negli occhi.
Gianni De Feo, con giubbotto di pelle e ‘a lattuchiglia al collo come gorgiera, è un Gesualdo consumato dal male dell’orgoglio, disposto a rimettere in discussione con un latente senso di devozione le sue crudeltà. Cloris Brosca dona a Maria l’inconsolabile rassegnazione di colei che s’è abbandonata al sentimento d’amore nel mutuo possesso e nel mutuo dono, senza riserva alcuna, dimenticandosi finanche dell’obbligo di fedeltà muliebre che la legava a suo marito. In questo abbandono Roberto Russo concentra il dramma di un rito che si ripete nel tempo: Carlo Gesualdo fu assolto per giusta causa, perché il tradimento era sulle bocche di tutti e i solerti padri Gesuiti avevano reperito in confessione le prove della discolpa. In realtà, però, fu il viceré in persona a ordinare di chiudere l’istruttoria e assolvere il principe. Dopo una simile sentenza, qualunque rosa avrebbe messo le spine per non farsi più toccare. Maria no, Maria sa che «non c’è bene nell’orgoglio» come non c’è pace nell’odio, e ha scelto il perdono. Nobilissima napoletana anche post mortem. (fn)
____________________
La rosa non ci ama di Roberto Russo. Con Cloris Brosca (Maria d’Avalos, d’Aragona), Gianni De Feo (Carlo Gesualdo, principe di Venosa). Scene e costumi, Roberto Rinaldi. Musiche, Alessandro Panatteri. Regia, Gianni De Feo
Foto © Sabrina Cirillo