Francesco Petruzzelli e Arturo Cirillo |
«OGNI FAVOLA È UN GIOCO»
Durante lo spettacolo ci sono tre o quattro momenti determinanti che aiutano a chiarire bene le intenzioni del regista, che qui è anche autore, o quasi. Mi piace, però, cominciare dagli applausi finali, quando, in mancanza della più classica passerella, Arturo Cirillo scappa giù in platea tra il pubblico, trascinandosi dietro l’intera compagnia, e, come un burattino ribelle, come un discolo che ha commesso una marachella, si lascia andare alla corsa sfrenata di un Pinocchio redivivo che tenta di fuggire alle guardie. In questa fuga, insensata, fantasticata, conquistata, c’è l’animo dell’attore che vorrebbe continuare la recita ad ogni costo, a jouer le rôle (dicono i francesi), e c’è anche il ricordo di un bambino che non vuole lasciare il teatro, ma anzi vuol rimanere lì a giocare e a sognare con i personaggi che ormai sono diventati suoi amici, i suoi confidenti, i suoi angeli custodi.
«Ogni favola è un gioco», cantava Bennato nel 1977, e Cirillo, per giocare al Cyrano de Bergerac, che dev’essere da sempre uno dei suoi giochi preferiti, ha reso i cinque atti della famosa commedia di Edmond Rostand una favola. E se l’è cucita addosso. Quella stessa che – come scrive nelle note di regia – continua a vivere nella sua memoria dopo aver visto un musical «da ragazzino a Napoli, nell’ancora esistente Teatro Politeama, che è stato il primo moto di questo nuovo spettacolo». Uno spettacolo felice, denso di poesia, in cui l’adattamento del testo, che è un classico, come lo è anche la storica traduzione di Mario Giobbe, non tormenta la scrittura originale, ma anzi la snellisce «sporcandola» di lieve comicità, e soprattutto l’accosta al linguaggio delle favole. Che equivale a renderla fruibile anche ai bambini. E quando una commedia per adulti è comprensibile anche al pubblico dei più piccoli, significa che è uno spettacolo che funziona con gioia.
Tuttavia, il Cyrano di Cirillo non è propriamente una commedia, non è un musical e non è nemmeno una tragedia (come indica l’antica dicitura), piuttosto somiglia molto al nostro vecchio varietà. Soprattutto i costumi di Gianluca Falaschi sembrano ispirarsi a quel genere teatrale del secolo scorso, strizzando l’occhio anche a un più recente varietà televisivo, dove pure a un frate cappuccino si consente d’indossare una tunica di paillettes senza dare scandalo. Le scene e gli arredi sono ideati, da Dario Gessati, per avvolgere personaggi da inghiottire e farne apparire velocemente altri, grazie a un girevole e a due semplici tendaggi semicircolari che coprono un attore vestito da cadetto e lo riscoprono, un attimo dopo, nel ruolo di Rossana, la quale può permettersi di avere i capelli turchini, perché lei è vista come la più classica delle fate, anzi lo è, e dove la governante si chiama Lumachina. Collodi docet!
All’inizio, quando per la prima volta viene pronunciata la parola «spada», il protagonista (e regista) indica il suo naso posticcio. Tutti sappiamo che i cadetti di Guascogna sono abili schermidori, pronti a sfoderare l’arma ad ogni occasione, e anche Cyrano non si tira indietro; ebbene, nel varietà di Cirillo non si vede neanche una lama, nemmeno un pugnale, ma soltanto un naso dai tre volti. Il primo, ovviamente, è quello poetico di Cyrano, un naso obbligato, visto il personaggio che s’affronta; il secondo, si sarà capito, è quello fantasioso di Pinocchio, un naso necessario per adattare il dramma alla favola; il terzo, più discreto, è quello comico di Totò, un naso spontaneo per Cirillo, il naso che lo ha spinto giù dal palcoscenico, in mezzo al pubblico, al finale dello spettacolo; ma è anche il naso che gli permette d’indossare gli altri due con la leggerezza del fuoriclasse, senza mai sfoggiare vanti da mattatore.
Fondamentale nella costruzione della regia e della favola è la collaborazione musicale di Federico Odling che già dalle prime note detta i tempi come un grillo parlante nascosto tra le quinte e crea atmosfere in un palcoscenico riempito per lo più dal disegno luci di Paolo Manti. Odling segue con ironia i primi passi del protagonista. Porta in scena l’anima dei burattini: da Pinocchio alla fata, fino al gatto e la volpe. Si serve delle note di Fiorenzo Carpi, che musicò lo sceneggiato di Comencini. Poi, per dar peso al finale struggente, riadatta Le foglie morte eseguita a cappella da Irene Ciani. Ottima la prova canora di Giulia Trippetta. La musica è quasi sempre necessariamente presente: senza la musica, in teatro, una favola non potrebbe mai diventare favola.
Gli attori tutti sono bravissimi. Solo Cirillo interpreta un unico personaggio; gli altri – Giacomo Vigentini, Francesco Petruzzelli, Rosario Giglio, insieme alle due donne già citate – si alternano in numerosi cambi d’abito per diventare cadetti, assassini, cavalieri, e dame. E al fin della licenza, Cyrano si adopera per cambiare la scena: sposta una panca, declama qualche verso, appare un balcone; «Chi mi chiama?», sembra di sentir parlar Giulietta; poi un singhiozzo, un sospiro, ed ecco Cyrano ormai vecchio, anzi no, è Molière, o forse era Geppetto.
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Cyrano de Bergerac da Edmond Rostand. Adattamento e regia di Arturo Cirillo. Scene, Dario Gessati. Costumi, Gianluca Falaschi. Luci, Paolo Manti. Musiche originale e rielaborazioni, Federico Odling. Con Arturo Cirillo (Cyrano de Bergerac), Irene Ciani (Rossana), Giacomo Vigentini (Cristiano), Francesco Petruzzelli (De Guiche), Rosario Giglio (Raguenau), Giulia Trippetta (Governante). NB: ad eccezione di Cirillo, ciascuno riveste molti altri ruoli. Teatro Ambra Jovinelli, fino al 28 aprile
Foto: © Achille Le Pera