Due immagini di Ninni (prese dal suo album) |
«IL PARLAR BENE È ALLA BASE DELLA NOSTRA EDUCAZIONE»
Continua l’incontro con Annamaria Giromella, insegnante all’Accademia d’arte drammatica per 38 anni; nel mondo del teatro e della recitazione sin dal 1953.
Da sempre tutti la chiamano Ninni
SECONDA PARTE
Fausto – Poco prima del 1980 è cominciato il boom televisivo. Sempre più canali, sempre più programmi. Sempre più scelta casalinga a buon mercato. Tutto ciò coincide con il decadimento del teatro e del cinema.
Ninni – Certamente la televisione non ha aiutato. Tuttavia non è solo la televisione che ha provocato questo corto circuito, ma qualcosa di più perfido che non si riesce ancora a mettere a fuoco. Qualcosa che ha cambiato la vita di ciascuno. Oltretutto, all’epoca, la palestra quotidiana degli attori era il palcoscenico, un confronto costante con il pubblico, un esame continuo, oggi gli allenamenti di recitazione si svolgono per lo più in uno studio televisivo, dove si lavora con ritmi e con concentrazione molto diversi dalla sacralità della scena. Il confronto diretto non esiste più, l’esito dell’esame è determinato dallo share e non dagli applausi. Un freddo numero rispetto alla vivacità dei beniamini.
F – Oggi, almeno cinque spettacoli su dieci sono monologhi. Secondo te, quanto incide il malcostume del monologo sulla sfiducia di un pubblico storicamente abituato a godere delle commedie e delle tragedie? In Accademia esiste un corso che istruisca sui monologhi?
N – In Accademia non esiste nessun corso per monologanti, eppure, sì, è vero, diventa sempre più spesso un genere teatrale molto battuto, mentre prima era un evento straordinario e non un’abitudine. Per fortuna ce ne sono anche di molto belli e interessanti. Per rintracciare i motivi che spiegherebbero il florilegio di questi spettacoli, indagherei bene sui costi di un allestimento che sono lievitati, sulle capacità organizzative di molti produttori improvvisati, e sul numero di attori che ogni anno si diplomano in una scuola di teatro. Quando ho iniziato le scuole di recitazione in Italia si contavano sulle dita di una mano, oggi ce ne sono centinaia, forse migliaia; ragion per cui il monologo diventa una necessità per esibirsi, per dar sfogo all’attorialità di un artista che deve pur trovare una vetrina per spiccare il volo. Con il monologo tutto è più semplice e immediato.
F – Hai avuto tanti allievi. Sarebbe arduo elencarli tutti e si rischierebbe di fare un torto a qualcuno: soltanto due nomi.
N – Pierfrancesco Favino, bravissimo come tanti altri, ma in lui mi colpì subito l’abilità con la quale riusciva a trasformarsi dal tipo milanese al calabrese, dal napoletano al toscano, cambiando anche nella fisicità; una dote innata. L’altro è Claudio Gioè: da lui ho avuto la più grossa soddisfazione perché quando arrivò in accademia parlava con una cadenza siciliana che si sentiva anche nelle pause, invece, oggi quando lo ascolto recitare è perfetto, e gli riconosco il grande impegno con il quale ha studiato. Vorrei aggiungere Maria Paiato, un’attrice molto intelligente, capace di bilanciare istinto, sapienza e ormai anche una certa esperienza. La seguo sempre con molto interesse.
F – E tra i registi?
N – Ho grande fiducia in Massimiliano Farau. È un uomo di teatro serio e raffinato. Non mi delude mai.
F – Vai quasi ogni sera a teatro a vedere gli spettacoli dei tuoi allievi che ti invitano sempre. Ma non solo quelli.
N – Cerco di vedere ogni cosa: tutto non è possibile. È chiaro che quando un ex allievo mi invita, gli do la precedenza. È un gesto d’amore e di riconoscenza che va rispettato e ricambiato. Il loro affetto che prosegue negli anni è commovente e mi fa invecchiare bene.
F – Tra gli attori del passato chi ricordi con maggior simpatia e affetto?
N – Tanti.
F – Sempre soltanto due nomi.
N – Franca Valeri, amica di una vita a cui sono rimasta legata fino agli ultimi giorni. Amavo il suo umorismo, la sua intelligenza, la cultura, la sua indipendenza mentale. Non apparteneva a nessuna schiera. Anzi, nel suo genere, ha fatto da caposcuola. Per l’epoca la sua ironia era una novità assoluta. Fu la prima donna a ironizzare in quel modo, e senza mai pronunciare una minima volgarità. L’altra è Lilla Brignone, scomparsa troppo presto, artista eccellente con alle spalle una carriera esemplare, di cui ammiravo la sua discreta immodestia. Due attrici immense. Due donne straordinarie. In loro vedevo realizzati tutti gli insegnamenti di mia madre. Con loro c’era un’affinità di intenti davvero rara. Un’affinità che ho ritrovata costante nel tempo, nemmeno nei miei tre mariti, ma soltanto nel mio più caro amico: Mario Ferrero.
F – Conobbi Mario nel 1985.
N – Io nel 1953. Ero stata ammessa alla «Silvio D’Amico». Mario era assistente di Costa. Cominciava la sua carriera di regista di teatro prima, e poi anche della prosa in televisione.
F – Mario fin dal 1946 collaborava alla sezione prosa della Radio, con Giuseppe Patroni Griffi che adattava i testi e Achille Millo prima voce recitante.
N – Mario è stato un precursore dei tempi, sempre troppo modesto, non si è mai dato arie di aver fatto o di aver detto. Per noi che cominciavamo, però, è stato un preciso punto di riferimento. Siamo diventati subito amici. Un legame che, dopo il 1977, ci ha visto insieme quasi ogni giorno, fino alla sua morte nel 2012. Lui insegnava recitazione, io dizione. Eravamo sempre e ovunque in coppia. La sua fedeltà sodale è sempre stata una certezza. Così come il divertimento: con lui era assicurato.
F – Chi erano i compagni del tuo corso?
N – Camilleri, Gastone Moschin, Monica Vitti.
F – E dopo l’Accademia?
N – Terminato il primo anno, sono entrata nella Compagnia di prosa della Rai di Torino, poi nel 1956 vinsi il concorso nazionale per speakers radiofonici. C’erano circa ottomila aspiranti e risultammo idonei solo in ventidue. Questo dimostra con quanta cura venissero effettuate le selezioni. Non erano ammesse voci sporcate da inflessioni dialettali; non si prendevano in considerazione pronunce difettose; non si potevano sbagliare i fonemi delle vocali. Il concetto linguistico su cui puntavano allora i dirigenti della Rai era ispirato a un sano nazionalismo. La radio e la televisione che entravano nelle case degli italiani dovevano essere da esempio. E dovevano unire la nazione con l’unica concreta bandiera nazionale: la lingua.
F – Nel 1985 Calvino scriveva: «Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze».
N – Questa peste del linguaggio ormai dilaga senza freni in ogni ambito, la scuola non è all’altezza di arginare il problema. La lingua si studia sui versi dei grandi poeti e invece noto una certa comune ignoranza. Per questo motivo le parole sono usate sempre più spesso per confondere invece che per chiarire, per mentire invece che per comunicare sincerità. Il camuffamento delle parole è diventata la maschera più facile per nascondersi, proprio come si faceva anticamente nella commedia dell’arte: le maschere, Pulcinella, Arlecchino, Brighella, hanno sempre parlato in dialetto e infatti si bastonano, si insultano, si azzuffano. Ma bisogna avere un animo raffinato per comprendere che le due cose sono strettamente collegate. Io sono spesso a contatto con i giovanissimi, perché, malgrado l’età, continuo a insegnare, e mi accorgo che non si rendono conto del fondamentale contributo che il parlare bene offre all’educazione di ciascuno di noi. La lingua è civiltà e l’imbastardimento del linguaggio ci accompagna silenziosamente sulla sponda opposta.
F – Hai detto che lavori ancora.
N – Non più all’Accademia e non più come prima, ma continuo a insegnare dizione in altre scuole.
F – Allievi che vogliono intraprendere il mestiere dell’attore?
N – Molti puntano al doppiaggio, altri soltanto a parlare correttamente.
F – Come sono i ragazzi di quest’ultima generazioni?
N – Gli manca un po’ di curiosità e un po’ di cultura. Qualcuno mi ha detto che la Magnani, sì, l’ha sentita nominare da qualche parte: dev’essere una scrittrice che ha vinto il premio Nobel! (fn)
Fine seconda parte (2/3): segue