07 agosto 2023

Intervista con Annamaria Giromella (1ª parte)

Ninni Giromella (Archivio Nicolini)

A casa di Ninni,
11 giugno 2023

NINNI, NOVANT’ANNI DI TEATRO E GIOVINEZZA

Incontro con Annamaria Giromella, classe 1931, insegnante all’Accademia d’arte drammatica per 38 anni; nel mondo del teatro e della recitazione sin dal 1953.
Da sempre tutti la chiamano Ninni

PRIMA PARTE

Ninni – E a cosa devo l’onore di questa attenzione, per meritarmi un’intervista?

Fausto – Dopo 92 primavere ogni tua cosa merita la nostra attenzione.

N – Quindi è soltanto per una quantità di anni accumulata nella vita!

F – No. È la qualità del tuo carattere, della tua freschezza mentale, del tuo essere sempre giovane in mezzo ai giovani, e giovane anche più dei giovani, che a 92 anni diventa un ottimo motivo per intervistarti e scoprire qualcosa in più, di te e del tuo mondo.

N – Prima di tutto non sono ancora 92. Ad oggi, 92 anni fa, ero ancora protetta nel pancione della mia mamma: sono nata il 7 agosto 1931, a Carrara.

F – Allora, partiamo dal futuro…

N – Non mi prendere in giro.

F – Mai. Volevo dire, partiamo dal futuro del teatro.

N – Non è un bell’argomento. Mi sembra un futuro molto faticoso e troppo poco illuminato. I bravi attori non mancano, e ci sono anche registi di prestigio, ma pare che ancora non ci si è liberati dell’idea di un passato che non può più ritornare, e l’inutile affanno si avverte. S’investono troppe energie nelle piccole cose, invece di concretizzare quelle più valide e corpose. Eppure, l’esperienza mi suggerisce che il teatro supererà ogni difficoltà e troverà, finalmente un nuovo assetto. Ho assistito a tanti mutamenti e mi pare che questo sia un momento importante e delicato. D’altronde del teatro non se ne può fare a meno. Neppure la pandemia è riuscita ad affossarlo. Il cinema si sta leccando ferite ben più profonde: già prima del Covid soffriva, e adesso non sembra andar meglio. Nel sottobosco dell’universo teatrale, invece, si muove sempre qualcosa che alla fine germoglia. L’altra sera un tassista, riaccompagnandomi a casa, mi ha confessato che lui a cinema non va più, preferisce il teatro, e se ha voglia di vedere un film lo guarda in televisione sul suo schermo gigante. Ha detto che vedere gli attori dal vivo è tutta un’altra emozione. Aveva solo il rammarico di aver scoperto tardi questa sua passione. Mi sembra una confessione molto indicativa: un tassista che nell’epoca dei trappoloni…

F – I trappoloni?

N – Sì, i cellulari, quelli che sembrano un computer, e che durante una cena tra amici si intromettono in ogni discussione sentenziando la verità: sono stati creati per farci parlare più agevolmente, ma in realtà sono vere e proprie trappole dell’incomunicabilità. Dicevo, un tassista che all’epoca dei trappoloni si scopre frequentatore di platee, beh, mi sembra una gran successo per il teatro.

F – Hai appena detto che s’investono troppe energie nelle piccole cose. Al di là del teatro, non pensi che sia diventata una pessima abitudine del nostro tempo, e che i famigerati trappoloni siano il mezzo più adatto a disperdere queste energie?

N – Per ovvie questioni generazionali, io non amo molto questi aggeggi. Però vedo che gli adolescenti li maneggiano con troppa disinvoltura e temo che vengano usati proprio per disperdere le loro energie, per confondere la loro concentrazione. È un peccato! E purtroppo anche gli adulti spesso si lasciano coinvolgere dall’anonimato del cellulare per sfuggire alla realtà circostante. Io starei in guardia: qualcun altro è sempre pronto ad approfittare delle distrazioni altrui.

F – Per quarant’anni insegnante all’Accademia d’arte drammatica «Silvio D’Amico».

N – Non sono pochi, eppure sono volati. Fu Andrea Camilleri, che conoscevo sin da quando era assistente di Orazio Costa Giovangigli, a fare il mio nome. Era il 1977 e lui maestro del corso di Regia, fumatore instancabile; mancava una docente e mi fece chiamare. Io cominciai piena di timidezze e di dubbi, ma un giorno Elena Povoledo, memorabile insegnante di Storia dello spettacolo, mi disse che i ragazzi erano entusiasti delle mie lezioni.

F – Cosa insegnavi?

N – Dizione e Lettura dei testi.

F – Lettura dei testi?

N – Sì, c’era una distinzione; esisteva un tipo di lettura per ogni genere di scritto. Un racconto non si legge come un testo drammatico; i versi poi hanno uno studio più approfondito. Tutte nozioni che avevo appreso molti anni prima proprio in Accademia, frequentandola da allieva all’inizio del Cinquanta, quando Camilleri, anche lui allievo, mi faceva la corte.

F – E chi erano i docenti?

N – Naturalmente Orazio Costa al corso di Regia, e Wanda Capodaglio per la Recitazione, e tanti altri, tra i quali anche Sergio Tofano, che purtroppo non ho mai avuto direttamente come maestro, eppure la sua presenza si avvertiva; lo consideravo un uomo di gran classe e di una delicatezza speciale, e aveva una immensa cultura. Insomma, era una persona dalla quale si potevano apprendere valori preziosi anche se lo incrociavi per le scale.

F – Stai parlando di un mondo teatrale che sembra lontanissimo.

N – Ho vissuto il periodo migliore del teatro, quello che corrisponde agli anni più belli della storia d’Italia: la ripresa del Dopoguerra, e poi gli anni Sessanta fino alla metà dei Settanta che a Roma sono stati pieni di fermento artistico e intellettuale. Intendiamoci, il teatro ha sempre vissuto di alti e bassi, anche allora si parlava di crisi nel teatro, ma era diverso il pubblico, era differente l’interesse del pubblico, l’approccio che la gente aveva con le platee di tutta Italia. E il teatro viveva di questo calore. Si poteva contare sulla curiosità che il palcoscenico accendeva negli spettatori. Ci sono stati periodi in cui la fiducia del pubblico è mancata quasi completamente, e gli attori difficilmente s’imbattevano in un referente valido. Molti teatri, anni fa, riuscirono a strappare la fiducia dell’abbonato, che però non è la stessa cosa. L’abbonato è uno spettatore tiepido. E infatti i teatri non si sono ripresi con gli abbonamenti, anzi! Sia chiaro, non è stata colpa né degli attori e né degli spettatori. È successo qualcosa che ha sfiduciato la gente nei confronti del teatro. E noi del settore non ce ne siamo accorti subito. Qualcuno ha cercato di indagare, ma mai nessuno ne è venuto davvero a capo.

F – Sarebbe facile adesso incolpare la pandemia, ma questa sfiducia, mi pare, sia nata prima.

N – Molto prima. In epoca insospettabile. Il teatro ha navigato benissimo fino alla metà degli anni Settanta, poi il clima generale s’è guastato con gli anni bui, il terrorismo, le Brigate rosse, il rapimento Moro. Fatti molto gravi, che hanno lasciato un segno che ancora oggi stiamo pagando. E il teatro si è accodato a questo lento declino sociale. Prendiamo l’esempio di via Veneto: nel 1960 si andava a teatro, poi al ristorante e poi si tirava l’alba in mezzo alla strada più viva del pianeta. Io credo che nessuna città al mondo abbia avuto una giostra felice com’era via Veneto tra il ’50 e il ‘60. Lì si riuniva ogni notte il mondo intellettuale, cinematografico e teatrale; tutti gli artisti del globo, prima o poi, transitavano per quella strada, mettendosi in fila per potersi sedere al Café de Paris o da Doney. Oggi tutto questo è sparito. Via Veneto la sera mostra la stessa desolazione di una strada di periferia, e la sua vivacità non si è trasferita altrove, è morta. Questo significa che tante altre realtà cittadine felici sono sparite. D’altronde, il decadimento adesso è in ogni campo. La nostra civiltà odierna – lo vedo appena esco da casa – è rappresentata dai jeans strappati e dall’anello al naso. Quando ero ragazza, per indicare qualcuno che mostrava caratteristiche tipiche dei selvaggi, si diceva che avesse l’anello al naso; ora è diventato un distintivo di modernità, di progresso, quasi di riscatto sociale.

F – E i tatuaggi?

Ninni chiude gli occhi scuotendo il capo, come se volesse cancellarli dalla sua immaginazione e poi sussurra: «Per carità, peggio di me appena sveglia: ché sono un incrocio tra Quasimodo e Rigoletto». (fn)

Fine prima parte (1/3): segue

Pubblicato anche su Quarta Parete il 15/6/23


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