QUANDO GABER E LUPORINI ERANO LIBERI DI ESSERE POLITICAMENTE SCORRETTI
Tre giorni di appassionata allegria con Pierfrancesco Poggi al Off/Off di Silvano Spada. Tre giorni, dal 16 al 18 dicembre, in compagnia di Giorgio Gaber, di Bruno Lauzi, di Sergio Endrigo, Lucio Battisti e altri: una generazione, o forse più, di cantautori che hanno segnato un’epoca. Io, Gaber e gli altri è una lunga piacevolissima passeggiata canora tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo, intervallata da alcuni sketch che l’attore propone come divertissement.
Accompagnato alla tastiera dal musicista compositore Lamberto Macchi, Pierfrancesco Poggi – «Chicco» per gli amici – dedica lo spettacolo soprattutto a Giorgio Gaber (finanche il titolo fa riferimento a una sua canzone), introdotto però dalle romantiche note di «Io che amo solo te» di Sergio Endrigo. La carrellata su Gaber (e Luporini) si apre con «Goganga», poi «Far finta di essere sani», «Le mani», «Lo shampoo» e tante altre fino ad arrivare ai grandi successi politicamente molto scorretti (quando si poteva!) «Le elezioni» e «La libertà». Non a caso Poggi commenta, strizzando l’occhio a Fausto Bertinotti, seduto in prima fila: «Certo che Gaber e Luporini, non ci andavano leggeri». L’ex presidente della Camera sorride platealmente desolato, mentre in sala c’è chi ironicamente sussurra alle sue spalle: «Qualcuno era comunista».
Il clima in platea è molto amichevole e giocoso, grazie alla conviviale energia che giunge dal palco. Si canta insieme. Si ride e si scherza con la poetica giocosa e intelligente di Giorgio Gaber e di Sandro Luporini che regalano la libertà di poter tornare indietro di qualche anno. Il primo a farne le spese è il pianista Lamberto Macchi, il quale, da ragazzo, quando frequentava la scuola dei Gesuiti, durante un’esibizione, convinto che i prelati non potessero riconoscere certe melodie, pare abbia regalato ai padri della Compagnia di Gesù un frammento musicale tratto da «Je t’aime moi non plus», che fu immediatamente bloccato. I Gesuiti sanno sempre tutto e prima di tutti!
Gli intermezzi che Poggi propone sono suoi brevi monologhi, alcuni cavalli di battaglia, in cui si diverte ad imitare un barista di Spoleto durante il mitico Festival dei due Mondi guidato da Gian Carlo Menotti, quando per le vie del paese si potevano incontrare la Fracci tra Nureyev e Baryšnikov. Poi c’è la Signora Olga da Ladispoli, una sarta teatrale che ha lavorato con Visconti mentre è ospite di una popolare trasmissione televisiva.
Si diceva di Poggi attore. E in effetti, riproponendo le canzoni di Gaber, ci si accorge che il cantante fa molto affidamento sulla sua esperienza attoriale, riuscendo ad immedesimarsi attraverso il canto fino a conquistare le tipiche movenze dinoccolate del cantautore milanese. Poggi infatti nasce attore nel 1977 nella compagnia di Giuseppe Patroni Griffi al Piccolo Eliseo e con lo stesso regista rimane per molti anni, recitando anche al fianco di Paolo Stoppa in un memorabile Avaro.
A questo proposito non voglia sembrar fuori tema una postilla dal sapore ormai storico. Io, Gaber e gli altri ha in locandina un sommario, che però nello spettacolo resta inesplorato: «Il mondo poetico di Gaber e altri maestri che allora chiamavamo tutti al femminile: la Battisti, la Endrigo, la Lauzi, la la la…». Nel 1978 Peppino Patroni Griffi, commediografo del periodo d’oro che oggi potremmo definire la Belle époque del teatro italiano del Novecento, cominciava a scrivere una commedia più intima del solito, nella quale si riflettevano umori e attitudini suoi e degli amici più stretti (primo fra tutti Romolo Valli, per il quale la pièce fu confezionata). Stiamo parlando di Prima del silenzio, che il suo interprete naturale, a causa di un destino avverso, purtroppo recitò soltanto per poche repliche.
La commedia, nella seconda scena, ha un sottotesto che soltanto gli amici dell’autore conoscono: il protagonista, infatti, racconta della sua visita a TS Eliot, un incontro avvenuto per un caso del tutto fortuito presso l’editore a Russell Square. L’episodio, nella realtà, si riferisce a un controverso appuntamento che un famoso attore, il quale aveva appena interpretato l’Arcivescovo di Canterbury nel dramma di Eliot, Assassinio nella cattedrale, era riuscito a ottenere dal grande poeta. Si trattava di Memo Benassi che però improvvisamente cambiò idea passando l’impegno a Mario Ferrero, regista teatrale e storico maestro dell’Accademia d’arte drammatica, in visita a Londra. Tuttavia, il particolare che a noi interessa per rientrare in argomento va ricercato in una battuta: quando Benassi, artista assai stravagante, suggerisce al giovane Ferrero: «Gli dici che ho mancato l’appuntamento perché devo rientrare in Italia per il Mercante di Venezia. Che credi, Reinhardt diceva che ero molto più moderno io che Grudgens».
Patroni Griffi stesso ricordò più volte di aver scritto, nella prima stesura, l’ultima parte della frase al femminile: «… Reinhardt diceva che ero molto più moderna io che la Grudgens», perché parlare al femminile era un vezzo tipico di Memo Benassi che, in questo modo, rispecchiava la goliardia generosa di un linguaggio provocatorio, sì, ma tendente a racchiudere una élite artistica. Se anticamente gli uomini di maggior prestigio venivano indicati con l’articolo (l’Alighieri, il Tasso, il Manzoni), nel Novecento quell’articolo elogiativo veniva attribuito quasi esclusivamente alle dive del cinema (la Garbo, la Dietrich), o del teatro (la Duse, della quale Benassi fu l’ultimo compagno di viaggio); e negli anni in cui il nostro sviluppò questo vezzo c’era soltanto la Callas, poi arrivò la Fracci. Così, per indicare qualcuno appartenente alla élite artistica o intellettuale di un’epoca certamente più spensierata di quella odierna, si prese l’abitudine giocosa di evocarlo al femminile e preceduto dall’articolo. Se poi questo qualcuno appartenesse al genere donna o uomo, non aveva alcuna importanza. Era soltanto un gioco, forse pretenzioso e mai offensivo. Anzi!
Foto: Pierfrancesco Poggi e Giorgio Gaber
Pubblicato anche su Quarta Parete il 17/12/22