NUNTIO VOBIS GAUDIUM MAGNUM:TORTELLINI AL SAPOR DI VENDETTA
La deliziosa favola che Alice Bertini e Federico Gatti hanno portato in scena, nella sala della Fortezza Est a Torpignattara, è scritta sulla sensibilità poetica degli autori, e allora spero non dispiaccia citare i famosi versi del Morgante: «E credo ne la torta e nel tortello; l’uno è la madre, e l’altro è il suo figliuolo…». Così Luigi Pulci nel XV secolo spiegava l’etimologia del tortello, indicandolo come diminutivo, il figliuolo appunto, della torta. Più tardi arrivò il tortellino, diminutivo di seconda generazione, ossia nipote della torta.
I due protagonisti, nati dalla delicata penna di Alice e Federico, vittime integrate nelle alienanti barbarie della società contemporanea, sospettano invece che il più piccolo dei tortelli, sottoposto alla crudele vivisezione di crasi e aferesi, nasca dal loro sentimento ribelle, a causa dei torti subiti da un re assai malvagio. Il quale, padrone supremo del potere, è riuscito ad infliggere tanto malessere al suo popolo da strappargli denari, casa e soprattutto l’onore. Uno e Due, sono questi i nomi delle guardie del re, nutrono rancore e odio nei confronti del despota. Due ammette di essersi ammalato di rabbia, come gran parte della popolazione che ormai vive nello sconforto più profondo. Uno insinua il dubbio che sia addirittura colpa loro, rei di aver concesso troppa fiducia al re: è vero, sostiene Due, l’errore è stato accettare la caramella, e fidarsi del sovrano; ora si trovano sottomessi a colui che è «costretto a mentire per difendere la sua gente dalla pericolosa minaccia della realtà». È il monarca della favola a dirlo, non un qualunque deputato del parlamento, proprio quel re malvagio che tutto può: finanche odiare il suo popolo. Beh, almeno nelle favole la sincerità è consentita!
Il trastullo del potere, però, contiene anche, lo sappiamo bene, momenti di noia e quindi occorre un gioco per far distrarre sua maestà dallo spossante impegno quotidiano. Quale migliore occasione per Uno e Due, e della cittadinanza tutta, potersi vendicare sottilmente, non dei soprusi e delle cattiverie subite, ma dell’insopportabile supplizio morale di dover rinunciare al proprio onore. Il popolo è concorde: «Toglieteci tutto fuorché l’onore».
Viene organizzata in gran fretta una gara culinaria (forse proprio come a volte si organizzano referendum e votazioni?) «per non far la morte dell’impiccato», quindi per ridare speranza alla popolazione che, sempre credulona, s’illuderà anche stavolta di poter conquistare il trono con un semplice piatto saporito. E invece la vittoria va all’astuzia di Due, assetata di spietata vendetta, e alla poetica di Uno che, siccome ha studiato, suggerisce, sì, di uccidere il re, ma con una portata delicata, profumata, ben condita d’amore, cosicché il sovrano possa affogare nella sua stessa ingordigia, proprio come il popolo affoga quotidianamente per i torti patiti. Propone quindi che da quei torti nascano tanti piccoli figliuoli capaci di restituire l’onore alla gente.
E mentre gli autori si dilettano a rievocare ironicamente echi amletici sulla corona del loro principe dormiente, in scena i più semplici ingredienti culinari assemblano il primo tortellino al sapor di vendetta. Il re lo assaggia e ne resta estasiato tanto che, come previsto, ne divorerà un sacco pieno stramazzando al suolo. La corona resta senza il suo sovrano. Evviva! Il popolo è vendicato. Ma il potere non è del popolo: la corona è troppo bella, molto più affascinante dell’onore degli altri.
La favola giustifica ogni semplicità dell’allestimento, anzi proprio l’austerità scenografica, accompagnata da una equilibrata recitazione infantile, regala al pubblico, vivissima, la percezione del surreale. Tuttavia, Tortellini e il giorno in cui furono inventati, è una favola dichiaratamente a sfondo politico-sociale e il titolo, così come è stato concepito, non dà alcuna indicazione sulla consistente allegoria che invece contiene. Forse, a tal proposito, un richiamo sarebbe opportuno.
Pubblicato anche su Quarta Parete il 9/12/22