POIROT ALLE PRESE CON I FANTASMI, BRANCOLA TRA HORROR E QUALCHE INCOERENZA
È difficile sbagliare un film quando si ha Venezia come palcoscenico. Eppure, ambientare un giallo di Agatha Christie tra calli e rii non è stata la scelta più felice. Kenneth Branagh, al suo terzo appuntamento cinematografico con l’investigatore Hercule Poirot, dopo «Assassinio sull’Orient Express» (2017) e «Assassinio sul Nilo» (2022), di sua iniziativa preferisce abbandonare le indicazioni letterarie della Regina del crimine (come fu giustamente soprannominata l’autrice di «Poirot e la strage degli innocenti», il racconto da cui è tratto il film), per abbracciare iniziative più personali rispetto all’originale. L’ambientazione di Assassinio a Venezia ha certamente stregato, con il suo fascino singolare, perfino l’ormai navigato Branagh; il quale, però, dopo alcune inquadrature cittadine, forse disorientato da tanto splendore, sceglie di rinchiudere il set in un prezioso e caratteristico palazzo del Cinquecento con i balconi che s’affacciano nel rio sottostante, a cui si può accedere soltanto arrivando in gondola; gli interni (sicuramente poi ricostruiti negli studi cinematografici) assomigliano alle antiche prigioni nei piani bassi, ma esaltano l’eleganza dell’architettura lagunare negli alloggi superiori. Nella penombra della sontuosa magione, quindi, Branagh fa rivivere le credenze dei fantasmi e degli spiriti care alla letteratura inglese, più che alla Repubblica marinara. La telecamera si sofferma in magnifiche fotografie oblique che seguono le prospettive di una delle piazze più famose del mondo, immagini che certamente mandano in visibilio gli spettatori del pianeta, ma noi per indole siamo più disincantati di fronte alle meraviglie nostrane: proprio come l’intelligenza di Poirot non si lascia accecare dai fantasmi che animano le stanze dell’antica residenza veneziana.
Infatti, facendo il Poirot della situazione, si potrebbe facilmente incastrare Branagh, reo di aver commesso un peccato di leggerezza in almeno due o tre occasioni inciampando in alcune evidenti incoerenze. Il film si apre su una città da poco liberata dai tedeschi. Le divise militari degli americani e la musica di Glenn Miller in sottofondo fanno pensare a una imminente liberazione da parte delle truppe «stelle e strisce», ma Venezia è stata liberata il 25 aprile 1945 dall’VIII armata inglese, che era stata preceduta il giorno prima dalle avanguardie della divisione italiana «Cremona». Di truppe americane in laguna non se ne parla nei libri di storia, se non di quei pochi soldati che di volta in volta sostenevano il British Army. Branagh, per radunare un folto numero di bambini nel palazzo dei fantasmi, prende a pretesto dal libro della Christie la festa di Halloween del 31 ottobre; ma è credibile che nel 1945 a Venezia si celebri una tipica ricorrenza anglo-americana coinvolgendo tanti bambini italiani? Insieme alle divise militari, com’è possibile che ci siano persone adulte che indossano abiti spettrali con gli scheletri disegnati, come si usa oggi? Insomma, l’inizio del film presenta qualche dubbia anomalia.
Più avanti, poi, nel bel mezzo delle indagini, spunta una coltivazione di api da miele: una tipica attività che si pratica con frequenza sulle colline della Cornovaglia o del Kent. È quantomeno inconsueto mantenere un apiario, con tanto di arnie, su un terrazzino in laguna! Agatha Christie non avrebbe mai commesso una simile ingenuità, e infatti il suo racconto è ambientato in Inghilterra, dove sia Halloween che l’apicoltura sono di casa.
Tuttavia queste anomalie abbastanza macroscopiche non insospettiscono, né distraggono, l’integerrimo Poirot, attento ad osservare ogni minimo particolare della sua indagine davvero atipica: questa sì voluta dall’autrice. Il detective per la prima volta si trova di fronte a un caso dalle apparenze soprannaturali. Il palazzo veneziano, più che dalle api, pare essere infestato dagli spiriti; e lui, uomo ineluttabilmente razionale, che si lascia guidare sempre da logica e deduzione, in un attimo scopre che la seduta spiritica, organizzata per parlare con una ragazza morta da poco, è soltanto un imbroglio male orchestrato. Poirot intuisce che la vittima non si è suicidata, ma è stata uccisa: da qui il caso si amplia tra inganni reali e suggestionati, anche e soprattutto dall’ambiente corroborato da visioni e immaginazioni sonore. Insomma, il regista dipinge il giallo di Agatha Christie con forti tinte di horror e di thriller che disorientano il nostro protagonista.
Sulla scena del crimine, poi, s’aggira, come un’anima rivelatrice delle intenzioni registiche, un piccolo osservatore costantemente alle prese con la lettura dei racconti di Edgar Allan Poe, un libro che dovrebbe essere lo spartito «del mistero, dell’incubo e del terrore», da cui Poirot rifugge per non cadere nella tentazione di abbandonarsi alla credenza di un mondo evanescente. Il detective più volte è costretto a lottare contro queste forze occulte che tentano di confonderlo prima che esso giunga alla soluzione di un complicato caso che nel frattempo si è ingigantito.
E la soluzione, naturalmente, arriva. Dopo aver parlato con tutti i sospettati, lui, come un abile giocatore che in un sol colpo posa sul tavolo tutte le carte e chiude la partita, accusa l’assassino con precisione matematica, adducendo motivazioni che diventano prove inoppugnabili; smaschera chi ha complottato, per altri scopi, contro l’infallibilità della realtà e della ragione. Si direbbe, quindi, un Poirot aristotelico che contrasta il suggestivo mondo di Platone, dal quale, però, resta affascinato, e a volte quasi imbrigliato nella sua suadente rete fatta, non di idee, ma di ombre e di sospiri, di tentazioni e di paure.
Foto: Il cast del film. In primo piano Kenneth Branagh (© ???)