La governante, regia di Giuseppe Patroni Griffi (1965) |
ANNA E GIORGIO, UN SECOLO DI TEATRO E DI POESIA. E POI ANCHE D’AMORE
Nel 1965, qualche mese prima che il sottoscritto venisse al mondo, presentando il Festival shakespeariano, Sir Harold Hobson, tra i massimi critici drammatici del Novecento, specializzato nei testi del Bardo, voce autorevole del Drama, pubblicò un approfondito articolo sui migliori interpreti del Principe di Danimarca da lui esaminati nel Dopoguerra. «I quattro Amleti, secondo me, più importanti – scrive Hobson – e rivelatori dei nostri giorni sono stati quelli di Gielgud, Guinness, Redgrave e David Warner. Il più grande maestro vivente del verso shakespeariano, l’unico attore che sappia esprimerne la stupenda melodia è certamente Sir John Gielgud». Il quale vestì i panni di Amleto la prima volta nel 1931 all’Old Vic di Londra, ma l’edizione che lo consacrò fu quella del 1934 (sotto la sua stessa direzione) al New Theatre nel West End, rappresentazione che riprese fino a oltre il 1950.
L’Amleto di Michael Redgrave (padre di Vanessa) «era un Amleto malinconico, che – prosegue Hobson – sembrava abbandonarsi con piacere e con autocommiserazione alla propria infelicità trascendente, per raggiungere, ormai riconciliato col suo destino, un trionfo spirituale che lo rende degno dei più grandi che mai si siano veduti». E poi: «Piccola, cupa, maligna figura vestita di nero, Alec Guinness traeva da Amleto tutto ciò che era morboso e malvagio. Il suo Amleto viveva al centro di un universo perverso, nessun raggio di luce, dal cielo, lo illuminava. Per la profonda originalità, lo considero tra gli Amleti decisivi». Un caso a sé è David Warner, di soli 23 anni, un giovane assai goffo che i critici influenti dopo la prima rappresentazione trovarono assolutamente pessimo. In questo caso – continua Hobson – «il pubblico non seguì i critici, e arrivò anzi all’idolatria. Quando andai a vedere il suo Amleto per la terza volta, dovetti farmi strada tra code di gente che aspettava di entrare in teatro dal pomeriggio precedente. Il pubblico aveva ragione: l’Amleto di Warner è un Amleto disperato e non fortificato da nessuna fede. Warner è assolutamente in armonia con la sua epoca».
Amleto, regia di Franco Zeffirelli (1964) |
Amleto ha accompagnato Albertazzi per tutta la vita, forse anche più della Commedia di Dante, e sicuramente più di Adriano imperatore (arrivato molto dopo), tanto che, da noi, molti spettatori ormai anziani, identificano ancora il personaggio di Shakespeare con le sembianze di Albertazzi. E quel monologo, il più famoso monologo del teatro, che comincia con Essere o non essere, Albertazzi lo ha declamato e recitato e perfino consacrato a suo scioglilingua preferito. Ci ha aggiunto ironia, infelicità, sarcasmo, grazia, malinconia, e nel gioco delle pause riusciva a infilarci, con eleganza, anche quella spudorata derisione fiorentina. Una virtù, travestita con le ali della leggerezza, che molti altri suoi colleghi gli invidiavano.
Quest’anno, il 20 agosto, ricorre il centenario della nascita di Giorgio Albertazzi, ma siccome quel dì, molti di noi, saranno distratti dal mare e dal sole, penso sia più opportuno ricordare il grande attore di Fiesole nel mese delle rose. E il motivo c’è. I destini delle persone, infatti, anche quando non ci sono più, spesso si incrociano in un gioco di numeri e date che nessun veggente avrebbe mai potuto prevedere. Il 30 maggio ricorre il centenario di Anna Proclemer, compagna di Albertazzi sulla scena e nella vita per oltre vent’anni, dopo che rimase vedova del marito, lo scrittore Vitaliano Brancati. La Proclemer si spense il 25 aprile 2013 a quasi novant’anni, Albertazzi il 28 maggio 2016, giusto in tempo per correre altrove a festeggiare il novantatreesimo compleanno della sua amica e compagna.
Proclemer e Brancati con la piccola Antonia |
La storia teatrale della signora Proclemer si intreccia in continuazione con quella di Albertazzi: si potrebbero raccontare centinaia di aneddoti che li hanno visti insieme sul palcoscenico e nella vita, ma pochi sanno che tra di loro esisteva una fortissima complicità poetica, oltre che teatrale. Conobbi la Proclemer in camerino, all’Argentina, dopo la rappresentazione di Ecuba, regia di Massimo Castri. Era il 1994, credo. Io ero in compagnia di Mario Ferrero, regista, storico docente della «Silvio D’Amico», amico dell’attrice da oltre mezzo secolo. Appena ci ricevette fece segno di chiudere la porta. Non era contenta di quello spettacolo, e si vedeva; il regista aveva imposto una recitazione simile a un bisbiglio. «Ma io non posso mormorare una tragedia di Euripide, mi sembrerebbe di fare un torto a tutti i nostri insegnanti d’accademia, a me stessa, a chi l’ha tradotta, agli anni trascorsi a declamare esametri e trimetri. Eppoi, questo fatto che il pubblico seduto in fondo alla platea debba faticare a sentire quel che si dice in ribalta, mi dà così sui nervi…».
Ferrero, dopo averla ascoltata in religioso silenzio, quasi avesse timore che un suo intervento aumentasse i toni della confidenza, e che qualcuno al di là della porta potesse sentire, all’improvviso, dimenticandosi di qualunque precauzione, esplose in un tripudio di contestazioni contro questa scellerata usanza di concepire una recitazione intima: «Di te s’è capito tutto, cara, ’un s’è persa una sillaba, ma le battute degli altri, un mistero», gridò con il suo inimitabile accento fiorentino. La verità, dal mio punto d’ascolto, stava nel mezzo: è vero, la voce della Proclemer era netta, stentorea, declamatrice, mentre quella degli altri era frammentata da qualche sibilo indecifrabile, ma non completamente! E trovai l’intuizione di Castri molto innovativa, sebbene poco incline alla tragedia antica, ma il risultato era affascinante.
Ritrovai la Proclemer qualche sera dopo, a casa di amici comuni. Rilassata, si era appartata su un divano: mi fece segno di versarle da bere. Mi avvicinai timido e mi squadrò: «Grazie, caro. Ti ho visto qualche sera fa con Mario, vero?». E mi chiese cosa pensassi dello spettacolo, ma, senza lasciarmi parlare, disse lei a me quel che pensava: «Non me ne importa nulla. Tu sai chi è stata per me la più grande attrice italiana? Titina De Filippo: la sua passione era così vera; la sua dizione impeccabile, pure quando parlava in napoletano. Io la conoscevo bene, sai». Non mi sarei mai aspettato che Anna Proclemer, nata in una zona d’Italia (Trento) dove l’influenza asburgica era fortissima, potesse indicare nella sorella di Eduardo la sua guida recitativa. Le spiegai, quindi, che, pur non avendola mai vista in teatro, conoscevo molto bene la sua voce per via di una registrazione di Filumena, su vinile, che mio padre custodiva gelosamente e che spesso ascoltavamo insieme. «Sei di Napoli, tu?» «Sì.» E cominciò dolcemente a dire, senza che le avessi chiesto nulla: «Erano ‘e tre doppo mezanotte…» Il suo non era un napoletano perfetto, non era quello di Filumena, e non pretendeva di esserlo, naturalmente, ma in quanto a dizione e chiarezza rispettava tutte le finali e le pause che furono di Titina, e di quella preghiera alla Madonna delle Rose che io avevo assimilato, grazie al vinile che ancora conservo. Fu una rivelazione. Un paio d’anni dopo fui invitato a casa sua, a una festa con declamazioni, e dopo cena lei, come fosse la cosa più normale del mondo, attaccò un brano in versi incomprensibili, ma quanta musicalità, quanta dolcezza in quella lingua che somigliava – forse – al canto subacqueo di una sirena, piena di vocali calde, di suoni liquidi, di emozioni ovattate. Nessuno capì una parola, ma il senso d’amore straziante colpì il cuore di tutti coloro che ascoltavano il canto di Puskin, quando Tatiana si innamora di Onegin.
Con gli aneddoti su Albertazzi si potrebbe riscrivere l’enciclopedia teatrale, tuttavia mi piace ricordare l’ultima volta che lo vidi, non in teatro, ma in privato e proprio a casa della Proclemer. Una serata particolare che la figlia, Antonia Brancati, organizzò un anno dopo la morte della madre. Una serata in suo onore durante la quale, quasi tutti gli invitati, come soleva fare la padrona di casa che vigilava in ogni angolo della sala con un ritratto, una fotografia, una dedica scritta, omaggiarono l’attrice recitando poesie di ogni genere. C’erano attori e giornalisti, scrittori e musicisti, e anche qualcuno che non sapeva a quale categoria appartenere.
Quella sera una cara amica mi aveva presentato ad Antonia, appunto, come poeta, e fui invitato a leggere qualche mio verso giocoso che mise la platea di buon umore. Ma subito dopo una giovane attrice assai impegnata calò il Cinque di Lorca e sparigliò! Ci vollero almeno tre sonetti del Belli per ritirar su musi lunghi e mesti. Il convivio proseguì tra molti applausi, tanti sorrisi, moltissimo entusiasmo. Poco prima della mezzanotte, si alzò dal divano lui, Re Giorgio, che fino a quel momento era rimasto ad ascoltare. Era stato invitato a chiudere la performance con un suo intervento. In verità, si vedeva, non aspettava altro! Si prestò simpaticamente, con poche battute, a intrattenere l’esigua platea, qualche viso conosciuto, qualche altro meno, tuttavia, cominciò con una Pioggia incantevole che faceva risuonare la selva dannunziana di una miriade di suoni silvestri, soavi e piacevoli. Poi attaccò una sublime parodia di un classico, solitamente assai noioso, ma trasformato in un esilarante pezzo comico a due voci. E infine, quando le risate e gli applausi e gli sghignazzi non s’erano del tutto placati, un’altra voce nacque dallo spartito delle sue vocalità.
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Foto: La governante (Fondo Nicolini); Amelto (Fondo Zeffirelli); Al pianoforte (Collezione Brancati); Albertazzi-Proclemer (Collezione Brancati), foto a colori (© Giulio Napolitano)
Pubblicato anche su Quarta Parete il 21/05/2023