04 aprile 2025

«Ho paura torero», di Pedro Lemebel

Roma, Teatro Argentina
3 aprile 2025

UNA PASSIONE RAGGELATA NELLA SANTIAGO DI PINOCHET

Il colpo d’occhio si concentra sulla scena di Guia Buzzi, che riesce a far da conchiglia a un romanzo, cercando di contenerlo per intero, di proteggerlo dalle insidie del palcoscenico e di ingentilirlo dalla crudele realtà dov’è stato partorito, ma soprattutto tenta di renderlo teatralmente vivace. Un testo in prosa trasportato sul palco si trascina molte difficoltà e qualche pesantezza: ne abbiamo avuto più di una prova in queste ultime stagioni. Generalmente quanto più è lungo lo spettacolo, più ne risente l’agilità e la fruibilità della visione. Cento ottantacinque minuti di Ho paura torero non aiutano a rendere frizzante e gustosa un’opera in cui, in certi momenti (soprattutto nella prima parte), i dialoghi faticano a rompere la monotonia del racconto. Pedro Lemebel, autore cileno che ha più volte denunciato nei suoi scritti l’oppressione militare della dittatura di Pinochet, inventa una graffiante satira ambientandola nel 1986, anno dell’attentato al presidente, costruendo, sullo sfondo della vita politica e dell’attività rivoluzionaria, una storia d’amore altrettanto sovversiva tra Carlos, un militante del Fronte patriottico, e La fata dell’angolo, un romantico travestito, innamorato e sognatore.

Il romanzo si sviluppa su tre livelli: in primo piano c’è il rapporto sentimentale tra i due protagonisti; intorno a loro si articolano i due mondi poveri e sottomessi, quello dei travestiti emarginati e l’altro dei rivoltosi che agiscono in clandestinità; e infine, distaccati, o elevati a un rango superiore, i due coniugi presidenziali, il Generale con donna Lucia. La scenografia contiene bene questi tre ambienti e ne aggiunge un altro cinematografico sul fondo, dove vengono proiettate anche le immagini di film hollywoodiani dal ‘32 al ’64: Marlene Venere bionda, Rock Hudson con Doris Day, e Sean Connery in versione 007. Un bel revival, ma certamente non di chiara e immediata comprensione. Anzi, troppe proiezioni alimentano un ridondante abbandono. Claudio Longhi, che con questo spettacolo firma la sua prima regia come direttore del Piccolo Teatro di Milano, si affida all’estro di Lino Guanciale per il ruolo che meglio caratterizza lo spirito di Lemebel, omosessuale fantasioso e ribelle, che non ha paura di rievocare termini oggi considerati scomodi (giustamente mantenuti dalla traduzione e dall’adattamento) come frocio e ricchione, vocaboli forse grevi ma che riescono a restituire il colore tragico e il calore umano di un mondo ormai scomparso.

Tuttavia è proprio questa connotazione viscerale, colta nella penna che ha descritto il personaggio della Fata dell’angolo, l’elemento che manca alla trasposizione scenica che ne fa Guanciale, interprete di una figura che vive lontano dalla politica e lontanissimo dal terrore della dittatura: bravo attore, indubbiamente, ma che non è mai riuscito a calarsi nella tragicità drammatica e po’ grottesca (o comunque sopra le righe) tipica del frocio d’antan, restando agganciato al più corretto limbo carezzevole dei gay. È poco credibile che un travestito sudamericano degli anni Ottanta mantenga toni e movenze da educanda che millanta verginità e illibatezza. Mi si obbietterà che invece i suoi racconti sono talvolta anche audaci e boccacceschi: sì, ma a chiacchiere. Un personaggio deve dar credito a quel che dice, altrimenti nessuno si convincerà mai. Senza scendere nel trivio, il regista, per evitare il gelo sentimentale, avrebbe dovuto esigere una passione più verace – autentica passione di un reietto (il Generale ne caccia uno da casa sua!) – nel costruire il rapporto tra Carlos e la Fata, che invece sembrano far finta di amarsi: il loro affetto lo si intuisce dalla situazione, ma senza alcun coinvolgimento emotivo dei protagonisti. E allora, come potrebbe il pubblico in teatro partecipare a quel sentimento che resta chiuso nelle pagine di un libro?

Prendiamo il caso di Donna Lucia, interpretata da una strepitosa e irresistibile Sara Putignano. La moglie del Pinocho. È lei la sovversiva, è lei la rivoluzionaria, l’appassionata donna spregiudicata che, grazie a una recitazione in cui si sente prima di tutto la convinzione dell’attrice, immediatamente ostenta cattiveria e superbia facendo sentire il divario tra la sua vita ricca e gioiosa, da padrona, e l’altra povera e meschina del popolo basso e infelice. La Putignano riempie la scena con la voce che diventa la sua irruente presenza, una presenza appassionata sempre. Seguita a ruota dall’atteggiamento tronfio di Mario Pirrello, nel ruolo del cinico marito, il Macellaio di Santiago (come fu tristemente soprannominato), la coppia irrompe nella monotonia del disagio economico e sociale, con simpatici siparietti, tra il grottesco e il comico, per alleggerire di spumeggiante teatralità una prosa che spesso ci estromette dal clima emotivo della storia principale.

Eppure, nelle note, Longhi ha scritto: «Per raccontare, tra eros e politica, la parabola ineluttabile del desiderio». Comprendo che ci sia da parte della Fata il desiderio d’amare Carlos, da parte del popolo il desiderio di riconquistare la libertà, da parte delle madri e delle mogli il desiderio di ritrovare i loro figli e i loro uomini improvvisamente scomparsi: si intuisce che nel romanzo un forte sentimento di desiderio soffi come un vento continuo e inarrestabile, ma in platea questo trasporto si è avvertito con eccessiva parsimonia. Infine, occorre notare che la regia ha sentito spesso la necessità di sostenere la recitazione con una base musicale. È un’indicazione da non sottovalutare: a volte, quando voce e parole risultano spoglie, bisogna rivestirle! Non so se i volumi dell’amplificazione fossero troppo alti o la dizione di qualcuno poco timbrata, certo è che si sono perse molte frasi, benché, nel complesso s’è potuta apprezzare una prova senza l’aiuto dei microfoni. (fn)
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Ho paura torero, di Pedro Lemebel; traduzione di M. L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi; trasposizione teatrale di Alejando Tantanian. Dramaturg, Lino Guanciale. Con Daniele Cavone Felicioni (La Lupe, Taxi Boy, Cadetto, Cameriere, Studente, Passeggero, Un uomo), Francesco Centorame (Carlos, Soldato), Michele Dell’Utri (La Rana, La Radio, Segretario, Soldato, Taxista), Lino Guanciale (La Fata dell’angolo), Diana Manea (La signora dell’emporio, Donna Catita, La vecchia sull’autobus, Manifestante), Mario Pirrello (Generale Pinochet), Sara Putignano (Donna Lucia, Una vicina, La domestica, Manifestante), Giulia Trivero (Laura, Passeggera, Una vicina, Manifestante). Scene, Guia Buzzi. Costumi, Gianluca Sbicca. Luci, Max Mugnai. Visual design, Riccardo Frati. Travestimenti musicali a cura di Davide Fasulo. Regia di Claudio Longhi. Produzione: Piccolo Teatro di Milano (Teatro d’Europa). Al teatro Argentina, fino al 17 aprile

Foto: © Masiar Pasquali

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