Giovanni Russo |
EPIGRAMMI AL SAPORE DI MARZIALE
Figlio di un giornalista, che è stato uno dei leader della cronaca sportiva, inviato del Corriere della Sera al tempo in cui il calcio era senza personaggi come Moggi e ci si confrontava sul campo e non c’era neppure il Totocalcio; nipote di un famoso studioso, l’alter ego di Benedetto Croce, di cui porta il nome e che influenzò molti studi del grande filosofo, si può dire che buon sangue non mente. Infatti, in queste brevi composizioni si sentono gli echi della cultura classica, si sente il sapore di Marziale.
Nella tradizione degli epigrammi, c’è la critica di costume, la cattiveria dei ritratti e dei difetti, a volte ingiusta, c’è lo sdegno per i soprusi dei potenti (vedi Pasquino). Di questa tradizione, Fausto Nicolini ha assorbito, come in Marziale, la capacità di cogliere i difetti che si annidano in molti personaggi che sono allo stesso tempo comici e patetici. È una tradizione che si è tramandata fino a noi, come dimostra il fatto che hanno ricorso all’epigramma anche Pasolini e Fortini, e che ebbe nel Settecento in Francia un grande epigono in La Rochefoucauld. Si vede che Nicolini ha frequentato intellettualmente, anche se non personalmente per ragioni di età, i nostri più vicini maestri della battuta o dell’aforisma, come Ennio Flaiano, a cui sono dedicati i quattro versi di Pubblicità (pag. 24) e per certi toni di satira, Gaio Fratini.
A questo punto, bisogna parlare della sua amicizia con Vito Riviello, che io ho conosciuto ragazzo e di cui ho visto crescere la vis poetica, che ha rotto il guscio provinciale della città dove abitavamo: Potenza. Dopo la sua recente scomparsa, Nicolini ha pubblicato uno scritto in cui racconta i suoi incontri notturni con lui in piazza di Spagna dove talvolta anch’io lo incontravo. Ce ne dà una viva rappresentazione spiegando la sua passione per il nostro più grande attore comico, Totò, tanto più significativa in quanto il suo linguaggio era appunto quello del paradosso e del rovesciamento dei luoghi comuni. Totò era un geniale epigrammista nel gesto oltre che nelle espressioni verbali, inventore di locuzioni apparentemente incomprensibili. Nicolini stabilì un’amicizia creativa per affinità culturali e poetiche con Riviello, che lo pungolava e gli spiegava che «la poesia c’è sempre in ogni cosa, ma bisogna avere l’occhio allenato e la certezza di individuarla». C’è una frase in cui si spiega la feconda influenza che egli ha avuto sul nostro epigrammista: «Dopo ogni incontro con Vito nascevano sempre nuovi versi, perché con lui era facile abbandonarsi alla poesia. Veniva naturale tradurre in poesia un concetto che altrimenti sarebbe stato trascritto solo come una sterile polemica. Invece, parlando con la leggerezza dell’acqua sono riuscito a costruire il mio stile poetico». Ecco il segreto di quella poesia Parlammo ad acqua, che comincia: «Bevemmo acqua fino a notte fonda» e cioè confrontandosi nelle forme verbali, nelle metafore e nelle traslazioni linguistiche in un duetto degno dei personaggi dell’Arcadia o dei sofisti latini. In questa poesia c’è anche la chiave dei giochi di parole dei suoi versi.
Il vero sodalizio di Nicolini, durato 12 anni, è con lo scrittore e commediografo napoletano Giuseppe Patroni Griffi, del quale è stato assistente. Con lui, si è immerso nel migliore teatro italiano, e da lui ha attinto quell’ironia napoletana tanto utile oggi che c’è la tetraggine delle ingiurie ai meridionali della Lega. Così ha frequentato i maggiori attori italiani, da Franca Valeri, che è qui con noi e a cui ha dedicato il libro, Valeria Moriconi, Vittorio Caprioli, Mariano Rigillo.
Alcuni dei bersagli e dei temi di Nicolini sono come in Bolero (pag. 63) la vacuità del linguaggio burocratico. Riesce a darci la satira di quel modo di comunicare che è determinato dall’uso del computer e che è diventato la lingua degli addetti ai lavori. Esempio: pag. 20 «Si era impallato il modem – e non potevo navigare in Internet ecc.» e che finisce con i versi «Mi sono perso – sono depresso – con Nasdaq non funziona l’amplesso».
(Pag. 60) – C’è la testimonianza dell’impegno civile nell’amarezza della poesia Gratia plena, dove echeggiano le odi di Petrarca (Ahi serva Italia) e di Leopardi. È come la litania di una preghiera nella maledizione per le condizioni italiane, una poesia tutta giostrata sul paradosso appunto di un «grazie» a un’Italia che si vorrebbe ben diversa.
(Pag. 34) – Vorrei citare Il cappello con i due versi finali «proteggo i miei pensieri – indossando eternamente il cappello» – perché mi ha fatto ricordare un episodio di cui sono stato protagonista. Fausto era venuto a casa mia, e non aveva più ritrovato appunto il suo Borsalino. Era disperato ed è stato felice quando sono riuscito a rintracciarlo da un mio amico un po’ distratto che l’aveva scambiato con il suo.
Bischizzi viene dopo la sua prima raccolta di poesie, Quelle che smuovono… 2007, a cui segue nel 2008 Lo scrittore e la plaquette Fenestraria ed appare come una tappa in cui l’autore è diventato più consapevole della sua vocazione. In questi bisticci di parole c’è un fondo di pessimismo condito però con l’ironia napoletana. Non si può non condividere i giudizi dell'autore della prefazione Lino Angiuli, il quale scrive che Nicolini «finisce per invischiare il lettore sollecitandolo a giocare insieme con l’autore». Occorre però, come osserva un altro suo recensore e studioso, Giorgio Linguaglossa, avere, come il nostro poeta, una capacità stilistica che non è comune. Siamo d’accordo con lui che c’è in questi epigrammi «una melanconia ilare che si traduce in ilarità compunta appena repressa». L’esempio, mi pare, di questa considerazione è l’epigramma Lo scrittore (pag. 35) che a me sembra molto divertente. «Ogni giorno nobilmente sperduto – tra le antiche fantasie di scrittore – lo vedo altero al tavolino di un bar – mentre sorseggia la solitudine – di un caffè ancora non corretto.
Giovanni Russo
Roma, Libreria Bibli, 11 febbraio 2010