CRONACA DI UNO SPETTATORE DISORIENTATO
Una voce fuori campo, cupa e stanca, lamenta le angosce dell’insonnia; maledice i pensieri notturni che sono i migliori alleati della veglia coatta, quella che anche al buio ti fa fissare il soffitto. Una luce elettrica si accende e si spegne a comando, mostrando una moka sul fornello, ma la sua intermittenza lascia presupporre che sia quella del comodino. È un inizio carico di tensioni immediatamente smorzate dalla disinvoltura di lei che introduce «il viaggio» che sta per cominciare: non proprio sotto i migliori auspici, a dir la verità. Sin da subito si avverte il peso dell’inquietudine. «Il viaggio» preannunciato si consuma in una casa, attorno al tavolo del tinello o della cucina: una volta le case avevano grandi spazi, oggi spesso cancellati, ma l’autore sembra rimproverare coloro che vanno alla ricerca di nuovi spazi: dice addirittura che anche il numero crescente delle amicizie è una forma di espansione incontrollata.
Le cose che restano è appena iniziato e già sono stati seminati due temi importanti: la disperazione dell’insonnia e la necessità di allargarsi. Inoltre, dalle parole si recepisce una ossessiva fobia della solitudine. Le premesse di un conflitto psicologico, ideate da Alessandro Businaro e scritte da Stefano Fortin (che ha curato la drammaturgia), appaiono dense, merito anche della forte presenza scenica di Grazia Capraro, spavalda col pubblico, intensa nel ruolo: ha qualcosa da raccontarci quest’anima irrequieta che pure a gesti comunica insofferenza. Poi invita il suo antagonista a entrare nel fascio di luce (era sempre stato lì, nella penombra appoggiato alla parete): è un uomo barbuto, vestito di bianco, si avvicina al tavolo e l’intera ragnatela della tensione che lei aveva costruito con la perizia di un’aracne specializzata, crolla in un istante.
Il colore bianco di un costume, specie se la scena è formata anche da zone d’ombra, diventa a volte un inconveniente. Anche lei è vestita candidamente, ma i suoi movimenti sono eleganti e il bianco esalta l’armonia del gesto. Vassilij Gianmaria Mangheras, invece, mostra sin da subito due braccia che non sa gestire, che viaggiano dissociate dal resto corpo, ingombranti, e il colore delle maniche della camicia non fa altro che illuminare ancor di più questa goffaggine che distoglie inevitabilmente la concentrazione.
Se a questo poi si aggiunge che nei successivi minuti si ripete sempre la stessa frase sulla preparazione del caffè fatto con la moka: prima a una voce, poi a due, poi ancora come fosse un refrain cantato fino all’esasperazione, tutto quell’interessante inizio e tutte le premesse decantate perdono la disperazione dell’insonnia diventando i prodromi di sospetti tentativi di una drammaturgia a cui mancano alcuni punti di congiunzione. I flash di una memoria turbata, forse malata (ancora non si sa) si riflettono dal passato al presente, ma seguendo un itinerario che soltanto l’autore ha chiaro nelle intenzioni, mentre in platea si fatica a trovare la successione emotiva degli eventi. Immagino che Businaro, o chi per lui, controbatta dicendo che non c’è – e non ci può essere – né una logica e nemmeno un filo conduttore. Benissimo: ma allora lo spettatore quale sviluppo emotivo deve seguire per non restare disorientato e arrivare al colpo di scena con l’animo in subbuglio?
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Le cose che restano, regia e ideazione di Alessandro Businaro. Drammaturgia, Stefano Fortin. Con Grazia Capraro e Vassilij Gianmaria Mangheras. Suono, Dario Felli. Assistente alla regia, Chiara Businaro. Tecnico luci e suono Francesco Manzoni. Produzione: Tib Teatro. Al teatro Basilica, oggi ultima replica
Con microfoni (per esigenza di regia)
Foto: (© ???)
