26 novembre 2025

«Sabato, domenica e lunedì», di Eduardo (regia, L. De Fusco)

Roma, Teatro Argentina
25 novembre 2025

CLAUDIO DI PALMA È UN IMMENSO PEPPINO PRIORE

All’ingresso del protagonista il suono di un violino preannuncia il dramma con molto anticipo, quando le nuvole sono ancora lontane dagli animi dei protagonisti, ma noi già le vediamo da qualche minuto, bianche e magrittiane, dipinte sulla cornice della bella scena ideata da Marta Crisolini Malatesta: un golfo casalingo formato da sette finestre che delimitano le onde del conflitto prima della burrasca. All’esterno una lunga balconata, territorio neutro, dove regna la pace e una costante apparente serenità. Sono i due mondi, le due attrattive della famiglia Priore, che Luca De Fusco mette a contrasto, con alcune sottolineature, in questa riuscita edizione di Sabato, domenica e lunedì: ossia, gruppo di famiglia in un interno. Dove, per interno, Eduardo De Filippo intende prima di tutto il focolare, l’archetipo dell’unione familiare. È, infatti, nel rituale del ragù, nel suo lento cuocersi e addensarsi, che va ricercata l’allegoria delle nuvole che, appunto, si addenseranno sulla tavola candidamente imbandita della domenica.

Il testo è un autentico capolavoro. Forse è il meno dialettale, e non solo nel linguaggio; sicuramente il più universale perché approfondisce certe dinamiche domestiche (che non sono soltanto napoletane) ben note all’intero pianeta: le piccole ferite del quotidiano, a volte involontarie, spesso determinate dalle abitudini, che, non curate, non chiarite, possono sfociare in perfidi dolori capaci di annebbiare la ragione e alimentare l’immaginazione. C’è un’aria cechoviana, è vero, nella scrittura di Eduardo, ma la speranza che il nostro scrittore oppone al dolore mantiene distante l’autore napoletano dal pessimismo del russo. «Sabato, domenica e lunedì» fu definita da Laurence Olivier, che la interpretò nel 1970, «conversation comedy», e De Fusco, forse istintivamente, s’è attenuto a questa fondamentale indicazione non alterando minimamente la perfetta partitura costruita da Eduardo, se non con qualche taglio; piuttosto s’è affidato a un cast di primissimo ordine, riuscendo a equilibrare battute e movimenti, drammaticità e comicità, e rimanendo concentrato sull’importanza di un teatro di parola, di conversazione familiare. Un parterre d’attori – bisogna dirlo ai puristi eduardiani che ancora accampano un immorale campanilismo – che non comprende tutti interpreti partenopei, ma che il regista ha saputo modellare con piccole dosi di napoletanità, nella parlata e anche nei gesti, asciugando quelle innate ai madrelingua, così da attutire le note stonate alle orecchie più sensibili.

Vediamoli i protagonisti di questa conversation comedy: non tutti ché son tanti (gli altri mi scuseranno, spero), ma almeno coloro che più mi hanno colpito. Mersila Sokoli è una Giulianella delicatissima, mai invadente, mai presuntuosa, eppure presente più di quanto si veda in scena. L’eleganza di Gianluca Merolli fa di Rocco un Cary Grant di via Calabritto (la commedia è del 1959) e la sua spavalda allegria è affabile e contagiosa. Paolo Cresta è finalmente un vero impiegato di banca che si presta al teatro comico napoletano con tutti i difetti e le convenzioni del Pulcinella da strapazzo (era nell’intento dell’autore). Maria Cristina Gionta assume toni e movenze tipiche della borghesia dell’epoca, oggi perlopiù scomparsa, che donano alla moglie del ragioniere quell’aria priva di ogni responsabilità, ma piena di imbarazzi. Francesco Biscione costruisce la figura di Antonio Piscopo affidandosi alla teatralità di un vecchio, bianco per antico pelo, che davvero sembra voler dire: «Guai a voi, anime prave!», ma con guizzi di follia giovanile che lo allontanano dallo stereotipo del nonno rincoglionito e buffonesco. Paolo Serra, mai visto così bravo, un ragioniere Ianniello perfetto, premuroso fino all’indecenza, un po’ viscido, eppure sempre nei limiti della gentilezza e dell’innocenza; un animo generoso nell’encomio ma arido di prospettive. Anita Bartolucci, una Zia Memè che fa della parlata cantilenante, talvolta volutamente esagerata, l’antitesi della esuberante esibizione intellettuale: braccia larghe e mani spesso al vento, come se dirigesse lei (che tutto sa) la dialettica orchestra casalinga, per evidenziare la supremazia di una cultura che probabilmente poco consiste. Claudio Di Palma è immenso: ha trovato la soluzione apparentemente più semplice (ma quanto difficile per un attore napoletano che conosce la recitazione del Maestro) per ricoprire il ruolo di Peppino Priore in maniera encomiabile. A Eduardo ha saputo rubare soltanto i silenzi, ma non quelli ingombranti. Non i toni, non le movenze, non gli sguardi. Il protagonista di Di Palma è tutto rappreso nella rappresentazione di un dolore inespresso e mai nell’esibizione di se stesso, nemmeno quando batte i pugni. Infine, Rosa Priore: nel panorama eduardiano è personaggio tra i più ardui da contenere, da tenere a freno, ché ribolle di costante energia intrinseca, e mantiene la cucchiarella come fosse lo scettro del focolare, Donna Rosa spesso, con le battute piene di emotività, scritte dall’autore, travalica la moderazione di Teresa Saponangelo, troppo contenuta nelle emozioni, troppo fredda nei silenzi, labile nelle reazioni (finanche quando rimprovera Rocco); invece questo stesso atteggiamento morigerato riscatta un finale commovente, donando alla moglie la dolcezza di un perdono puro, quasi fanciullesco, che vuol dire sincero e disinteressato.

Un paio di appunti, però, sono anche da fare alla regia. Il primo riguarda la chiusura delle finestre da parte di Peppino Priore, il quale, ogni volta non ne chiude una sola, ma sette! Capisco l’intento di cancellare la luce del sole, di separare la pace esterna dall’inferno casalingo, di incupire una scena che comincia a soffocare sotto le nubi, ma alla terza volta (e quindi diventano ventuno chiusure in un atto) si avverte una stancante ripetizione, un po’ ossessiva. Tuttavia, il primo tentativo, ben riuscito, risulta intenso ed efficace per allontanare i fantasmi che spiano la sua insofferenza. Il secondo, invece, si concentra sul movimento del sipario che, alla fine del primo atto, arriva troppo presto su donna Rosa, la quale, rientrando nella penombra, non ha il tempo di affogare nella disperazione la sua sofferenza (anche il pubblico fatica a entrare in quell’atmosfera improvvisamente diversa), quel sipario repentino smorza i singhiozzi, quindi attutisce il dolore, annulla le lacrime che s’accompagnano al rumore provocato dalla pasta spezzata e lasciata cadere in un’insalatiera (come scrive Eduardo), o in una colapasta (come si usava altrimenti) ma mai in un piatto piano. (fn)
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Sabato, domenica e lunedì, di Eduardo De Filippo. Regia di Luca De Fusco. Scene e costumi, Marta Crisolini Malatesta. Luci, Gigi Saccomandi. Con Teresa Saponangelo (Rosa Priore), Rossella De Martino (Virginia), Claudio Di Palma (Peppino Priore), Gianluca Merolli (Rocco), Alessandro Balletta (Federico), Francesco Biscione (Antonio Piscopo), Mersila Sokoli (Giulianella), Anita Bartolucci (Amelia, zia Memè), Renato De Simone (Attilio), Paolo Cresta (Raffaele Priore), Paolo Serra (Luigi Ianniello), Maria Cristina Gionta (Elena Ianniello), Antonio Elia (Dottor Cefercola e il sarto Catiello), Domenico Moccia (Michele), Alessandra Pacifico Griffini (Maria Carolina), Pasquale Aprile (Roberto). Produzione, Teatro di Roma (Teatro Nazionale), Teatro stabile di Torino (Teatro Nazionale), Teatro stabile di Bolzano, Teatro Biondo di Palermo, Lac Lugano arte e cultura. Al teatro Argentina, fino al 4 gennaio

Con microfoni, a volte eccessivi

Foto: La scena di Marta Crisolini Malatesta (© Tommaso Le Pera)

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