ERA DIVENTATO IL SUO STESSO SORRISO:
IL SORRISO DELLO SPIRITO ALOHA
Gregorio era… che fatica dover usare l’imperfetto parlando di un amico con il quale hai condiviso la parte più fresca della vita; e che fatica dover ammettere, contro ogni logica, la perfezione di una morte – che perfetta non lo è mai – tanto scellerata quanto improvvisa e glaciale. Pochi giorni prima di Natale, Gregorio aveva pubblicato un suo scatto sulla pista innevata in alta montagna, al confine tra Svizzera e Austria, definendo quella giornata perfect day. Sciava e sorrideva e il vento scorreva tra i suoi capelli, regalandogli il senso cristallino della libertà, lo stesso che poi… Sorrideva, in quell’immagine, di quel sorriso che, molti anni fa, lo ha portato lontano dalla nostra quotidiana romanità, eternamente tediosa, vittima di una immobilità papale; un sorriso che lo ha rapito e che lui ha indossato con la spregiudicatezza irriverente di una felicità possibile; un sorriso che ha sedotto, prima di tutti, Gregorio stesso. E lui s’è dato a quel sorriso con anima e corpo per dedicarsi alla vita sua e di chiunque gli riuscisse a stare accanto, apprendendo presto e interpretando al meglio lo spirito aloha: l’ancestrale filosofia della collettività delle isole dell’oceano Pacifico, dove viveva. Significa, pur scambiandosi un semplice saluto, condividere il respiro dell’amore. E il sorriso di Gregorio ne era la più esemplare manifestazione.
Gregorio era… era diventato il suo stesso sorriso. A distanza di anni, ho compreso che aveva studiato per non farsi trovare impreparato all’incontro con il sorriso aloha. Aveva programmato sin da bambino, inconsapevolmente, il matrimonio con la sua felicità. Ed è arrivato all’appuntamento. Ci vedemmo una volta, molti anni fa, quasi per caso al ritorno dalla sua prima missione professionale, in Africa: aveva la nausea stampata sul viso e la bontà che gli lacrimava dagli occhi. Fu dopo l’esperienza africana che conobbi un nuovo Gregorio. Mi fece un dettagliatissimo resoconto dei peggiori disastri umani, inimmaginabili. Mi raccontò di sofferenze strazianti, di casi già persi e recuperati, di vite tormentate per tortura e abbandonate per non rincarare il martirio. Ma alla fine, come se niente fosse, s’illuminò: «Adesso però posso finalmente andare in America. Sto aspettando la conferma da Miami.» In un attimo ogni traccia dei devastanti ricordi africani si vaporizzò e ritornò sul volto il suo antico sogno americano.
Gregorio era… era americano già in quinta elementare, quando Sergio, suo padre, aveva appena cominciato a teorizzare la possibilità di un viaggio negli States. Con il camper. Cominciò sin da allora a parlare dell’America con l’entusiasmo innocente di chi s’accinge a partire per il paese di Bengodi, o quello dei Balocchi, e subito, per evitare questa inopportuna confusione, si aggiornò con la preparazione fulminea di un cronista pronto a decollare per l’estero e che ha a disposizione poche ore per capire tutto del nuovo mondo che s’appresta a visitare. E parlava di America, di americani, di sistemi ultramoderni, di scoperte che noi, nella Roma degli anni Settanta, non vedevamo nemmeno in televisione. Gregorio fu americano – prima ancora di essere medico – per il suo modo impetuoso di parlare dell’America e per la sua innata predisposizione a sentirsi inadeguato alla mollezza pariolina. Partì con la famiglia: attraversò gli Usa da est a ovest, ma le isole Hawaii, che molti anni dopo lo avrebbero accolto, donandogli sorriso, stabilità e gioia, rimanevano ancora molto distanti.
Gregorio era… era già medico, sì, perché lui è nato medico, ma ha lasciato che l’America avesse la precedenza soltanto per una contingenza pratica: il viaggio negli States arrivò prima del cuore di bue. E lui che era… non ho mai conosciuto nessun altro tanto affascinato dalla concretezza della vita, senza teorie imbalsamate, senza ipotesi infruttuose, senza sogni fuorvianti, senza inutili innamoramenti – o me la dai o non mi avrai, era il motto della sua seconda gioventù, quando aveva toccato con mano che a Milano Marittima, dove solitamente trascorreva il periodo estivo, si poteva osare molto di più che a viale Parioli: e non per una mera questione di sole, sabbia e mare, ma perché c’era più disponibilità! E lui che era proprio così, pratico e concreto fino in fondo e fino all’ultimo, lui, determinato sin dal primo giorno, ebbe un solo sogno da bambino: diventare un chirurgo. Ma mica un chirurgo qualsiasi, no, lui voleva essere come Christiaan Barnard. Anzi lui voleva essere Christiaan Barnard. E lo era, quasi. Mancava poco: a dieci/undici anni già conosceva tutta la teoria del trapianto cardiaco, così come io conoscevo già la teoria del corpo di una donna. E ci scambiavamo informazioni assai preziose; con una differenza sostanziale: lui delle mie avvertenze ne fece tesoro, io delle sue purtroppo no! Mi confidava istruzioni mediche talmente precise che – credo stavamo in seconda media – attese me, quel fatidico giorno, per autoproclamarsi medico chirurgo alla mia presenza.
Gregorio era… quel giorno era davvero incontenibile. Cominciò una settimana prima ad avvertirmi per essere pronto all’evento. Aveva ordinato dal macellaio un cuore di bue, grezzo, polposo e filamentoso, pieno di grassi da ripulire, di membrane da squartare, di viscidi liquami che colavano dall’interno del muscolo fino a fuori la carta che l’avvolgeva. Mi telefonò all’ora di pranzo: «Pippo, è arrivato finalmente. Vado a prenderlo.» Montai in bici anch’io – sulla mia Chiappini argentata, Gregorio aveva la Lazzaretti rossa – e corsi in via Lagrange, dove il negoziante stava consegnando, al mio amico, l’involucro con un cuore grande come una palla da bowling. «Mi sembrate matti!», disse l’uomo vedendoci uscire gasatissimi. Corremmo a casa sua, scendemmo in cantina e là, indisturbati, con il cuore ancora caldo adagiato su un vecchio ripiano da lavoro, macchiato e scrostato, promosso al momento a tavolo operatorio, ci mettemmo all’opera con due affilati coltelli da cucina e un paio di forbici per ripulire l’organo e dargli vivo splendore. Quando tutta la materia superflua fu tolta, Gregorio mi disse che bisognava svuotarlo bene dal sangue che s’era nel frattempo raggrumato all’interno. Toccò a me, sotto le sue indicazioni, infilare per primo indice e medio nell’aorta per scavare nel ventricolo, mentre lui manovrava una garza introdotta in un’altra cavità cercando di trovare il punto d’incontro con le mie dita e passarmi il cotone inzuppato di rosso. Un’operazione che ripetemmo più volte. Fu un’esperienza indimenticabile. Mondato perfettamente di tutte le impurità, il cuore finì in un recipiente di vetro e conservato immerso nell’alcol, come se si volesse preparare una grappa al cuore di bue.
Gregorio era… era anche il mio compagno di bicicletta. Insieme raggiungemmo la cima della salita di Monte Parioli, dalla parte di viale Tiziano, una sfacchinata incredibile; e – come Coppi e Bartali sullo Stelvio – conquistammo anche la più impegnativa del Don Orione, quella che parte alle spalle della tribuna Monte Mario dell’Olimpico, dove spesso, grazie alle opportunità che aveva mio padre, andavamo a vedere le partite della Juventus, la nostra squadra, che ci alleava calcisticamente contro il tifo agguerrito dei romanisti e dei laziali. E quante volte ci siamo riuniti a casa mia, a casa sua, a casa di altri a vedere tutti insieme le gare di coppa in televisione: erano occasioni per stare insieme e festeggiare la nostra amicizia, la nostra complicità, la nostra lealtà. Di tutti. Io, Gregorio, Nicola, Andrea, Michele, Simone, Marcello, Marco e poi Simona, Maria, Alessandra, Tatiana, Gabriella e ancora si aggiungevano i fratelli, le sorelle, gli amici. E quante spaghettate insieme, anche a tarda notte: pomodoro e peperoncino, olio e peperoncino, peperoncino e basta! Sono stati i momenti più belli della nostra sempre festosa adolescenza, durante la quale ciascuno imparò a conoscere come crescere, come maturare, come diventare grandi e come staccarsi dalle certezze di una comune passione di gruppo che ha trovato la sua forza avvolgendosi – e proteggendosi – in un magico mantello di sana follia. Non saprei descriverlo altrimenti, il nostro gruppo!
E della sana follia di quel tempo, Gregorio è stato l’unico autentico e fedele seguace, il solo che abbia saputo mantenere intatta la generosa e indemoniata vitalità della nostra gioventù. Gregorio ha rispettato appieno, prima come principio ideologico per restituirlo poi concretamente, quell’insegnamento appreso negli anni di scuola, riuscendo sempre ad equilibrare magnificamente serietà e cazzeggio. Soltanto con la tenacia e l’intelligenza è arrivato a raggiungere magnifici risultati professionali, a instaurare ottimi rapporti amichevoli, a costruirsi una sua aloha intima e altruista senza mai modificare una briciola della sua innata gioventù quella che s’era forgiata insieme con noi. Gregorio correva dalla sala operatoria alla barca a vela, al surf; dalla corsia d’ospedale alla pista da sci, alla missione in nave; dal reparto oncologico alla maratona fino all’esplorazione nella giungla. Era avido di curiosità e veloce nelle decisioni. Per questo sentiva la necessità di correre e di sentirsi immerso in ogni istante nel cuore della libertà.
Gregorio era… era un amico che non ha mai smesso di essere amico. Quest’estate ci siamo sentiti intensamente durante le ore che hanno preceduto e seguito un’angioplastica per me urgente. Prima e dopo l’operazione la sua voce mi ha rassicurato, mi ha rasserenato, mi ha fatto perfino ridere. A migliaia di chilometri ho trovato il mio amico pronto ad ascoltarmi, a parlarmi, a richiamarmi per chiarirmi meglio di chiunque altro quel che stavo per subire. Immediatamente intuì quale fosse il problema delle mie coronarie colpite dalle radiazioni di quarant’anni prima. Avevamo 18 anni appena, eravamo a una festa di sabato sera e gli chiesi cosa fosse l’improvviso rigonfiamento che avevo sul collo. Mi disse di farmi vedere da un oncologo, poteva essere qualcosa di serio. Lo era. Gregorio lo capì subito. E subito, dopo quarant’anni e dall’altro capo del mondo, comprese che la conseguenza di quella cura, che lui ricordava benissimo, come fosse ieri, aveva bruciato i tessuti delle arterie del cuore che si erano ristrette. Tutte le chiacchierate avevano due temi: uno serio, l’altro faceto; uno professionale, l’altro libertino; uno vincolato al dovere, l’altro sciolto al piacere di raccontare la sua vitalità. Gregorio era… era così.
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Gregorio Maldini, nato a Roma il 12 marzo 1965, lavorava allo Straub Benioff Medical Center di Honululu, alle Hawaii, dove aveva trovato soddisfazioni professionali e gusto di vita consono alla sua indole. È morto, il 15 gennaio 2025, in seguito a un incidente stradale che lo ha coinvolto mentre era in sella alla sua Ducati. Da sempre cercava di conciliare attenzioni e devozione professionali all’esuberanza di una vita gioiosa e spensierata, interpretando al meglio quei valori sacri della filosofia Aloha, in loco molto sentiti. Per questo era conosciuto e amato: considerato un beniamino dalla comunità locale, in sua memoria, sarà organizzata prossimamente una grande celebrazione in accordo con la moglie e con i figli.
A Stefania, Matteo e Filippo; ad Alessio e a Franca; e a ciascuno di noi, l’abbraccio di tutti gli amici di Gregorio