PERCHÉ HITLER È MORTO
E BARBABLÙ ANCORA SOPRAVVIVE?
C’era una volta – e c’è ancora oggi – un uomo tanto brutto e crudele di nome Barbablù: così si potrebbe sintetizzare la favola di Costanza Di Quattro in scena al Teatro Vittoria fino al 12 febbraio.
Charles Perrault, nel XVII secolo, trascrisse in un libro le «Storie e i racconti del tempo passato», una raccolta di fiabe per i più piccoli. Costanza Di Quattro sceglie, tra queste, la storia di Barbablù per raccontarla, con qualche aggiunta al testo originale, non più ai bambini, ma agli adulti, affinché sappiano che quel mostro (dicevano anticamente), quell’assassino (dicevano i nostri nonni), quell’uxoricida (diciamo noi oggi) dalla barba blu che nascondeva in cantina i cadaveri delle sue mogli, in verità, non è mai morto. E probabilmente non morirà mai.
È sempre una questione di linguaggio: fino a qualche anno fa nessuno usava la parola femminicidio, ma oggi, con questo giovane vocabolo, scopriamo che l’anima di Barbablù potrebbe nascondersi in ognuno di noi, e chissà che la favola originale, quella pervenuta a Perrault dalla tradizione orale, non sia nata proprio da un fatto di cronaca di un’epoca assai antica: per quel che si legge sui notiziari odierni, vien da supporre che dubbi non vi siano.
In un’ambientazione scenica tipica delle favole, ben costruita da Moni Ovadia, tra manichini e costumi settecenteschi e una poltrona dallo schienale più che imperiale, Mario Incudine dà vita, con energica dialettica, alle «gesta eroiche» di Barbablù: nelle fiabe pare sia ancora consentito vantarsi di aver ucciso Rosa, Margherita, Gelsomina, Dalia, Iris ed Erica. A ciascuna il mostro ha riservato una morte diversa: e lo dice e lo racconta con la superbia del giustiziere virtuoso, esibendo eleganti abiti spocchiosi. A proposito, belli ed efficaci i costumi favolistici disegnati da Elisa Savi, che hanno reso irreale e leggero ogni riferimento alla violenza sanguinaria. Infatti, quando l’interprete spogliandosi del paltò di turno, prende le sembianze del commentatore che dall’angolo di proscenio osserva il reo mentre perora la sua causa, riportando l’attenzione e la tensione all’attualità, a bruciapelo chiede al pubblico: «Perché Hitler è morto e Barbablù sopravvive ancora?» In platea aleggia un pensiero: Hitler, in effetti, non è il personaggio di una favola, anzi tutti sappiamo che è esistito e che le sue atrocità fanno parte della nostra storia. Ma sono le sue atrocità, non le nostre; è stato lui che le ha commesse e commissionate, non noi. Invece Barbablù, che nell’immaginario collettivo fa parte di un mondo irreale e che quindi non dovrebbe spaventarci, Barbablù siamo noi, vive con noi, si nasconde in mezzo a noi; magari abbiamo cenato con lui, proprio ieri sera! A pensarci bene e a guardarci attorno, Hitler emotivamente ci coinvolge di meno rispetto a Barbablù.
Incudine riconquista la scena per proseguire l’orribile racconto sanguinario, assistito musicalmente da Antonio Vasta che con grande abilità e scioltezza (in poco più di un’ora) riesce a domare più strumenti di quante donne abbia ucciso quel povero orco in tutta la sua vita. La giustificazione! Proprio così: quante volte – ci fa notare ancora il commentatore – scappa la parola sbagliata, il viscido aggettivo che tenta di giustificare l’assassino? «L’uomo ha ucciso una prostituta», lo dicono al telegiornale, come se battere la strada fosse una ragione per andare al patibolo. Oppure, «la vittima viveva da sola», come se la solitudine fosse un incentivo per il carnefice. Con tutto il rispetto per il diritto di cronaca, sono frasi che corrono sul filo della vergogna, e che nascondono una triste verità. La verità che è la peggiore delle bugie. (fn)
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